Negli insegnamenti spirituali ricorre spesso l’esortazione al “lasciar andare”, inteso come espressione pratica del non-attaccamento.
Molti, sia tra i miei allievi di yoga che tra i clienti nei percorsi di counseling, sono affascinati da questo insegnamento e allo stesso tempo lo temono o dichiarano molta difficoltà nel metterlo in pratica.
Mi rendo conto sempre di più di come in realtà spesso venga frainteso.
Ad esempio poco tempo fà una mia studentessa alla fine della classe di yoga-mindfulness mi dice che durante tutta la pratica ha trovato molta difficoltà nel lasciar andare una sensazione di costrizione nel petto dovuta ad un emozione di rabbia.
Rimango un po’ perplesso, ed esplorando insieme mi accorgo che ha confuso il “lasciar andare” con il respingere, il cercare di sbarazzarsi di qualcosa.
La sua fatica e il suo sforzo derivavano dal tentativo ricorrente durante tutta la pratica di mandar via quella sensazione spiacevole. Mentre cercava di sbarazzarsene pensava di star praticando il lasciar andare senza però riuscirci.
Credo che questo sia un errore molto comune in cui possono facilmente imbattersi anche praticanti più esperti.
Si può confondere il lasciar andare, che è qualcosa che accade quando non c’è lo sforzo di trattenere un esperienza, come una mano che si apre quando smettiamo di contrarla, con lo sforzo attivo e generante tensione innescato dal cercare di liberarsi di qualcosa di spiacevole.
In questo modo inganniamo noi stessi usando il discorso spirituale;
ci raccontiamo che ci stiamo impegnando a lasciar andare, quindi pensiamo che la nostra intenzione sia corretta;
siamo dei bravi praticanti che si sforzano giustamente, ..e più mi sforzo e più
non ci riesco.. però almeno sono un praticante sempre più volenteroso..
Quando dici che lasciar andare è difficile, in molti casi non si tratta veramente
di lasciar andare, ma è il tentativo di camuffare qualcosa di molto più
basilare e allo stesso tempo sfuggente, e cioè l’avversione nei confronti dello
spiacevole ed il tentativo di eliminarlo.
Ovviamente in questi casi non si può che inscenare una lotta che sicuramente rafforzerà il ciò di cui vogliamo liberarci
Questo modo di lasciar andare inoltre non funziona per altri due motivi:
primo perché da un lato non è un vero lasciar andare, e secondo perché si vuole lasciar andare prima di aver fatto un esperienza piena di quell’emozione, sensazione, sentimento, ecc..
(Se vuoi approfondire l’argomento, puoi trovare altri spunti sulla pratica del “lasciar andare” qui)
Quello che è necessario comprendere è che non possiamo lasciar andare qualcosa di cui non facciamo pienamente esperienza.
Non possiamo lasciare un luogo che non abbiamo attraversato.
Non possiamo lasciar andare qualcosa senza prima averlo sentito pienamente.
Quindi possiamo riassumere sinteticamente così la pratica corretta:
“Prima sentire, poi lasciar andare”.
Dove quel sentire non è un sentire fugace prima di scansare, ma qualcosa che può anche durare molto a lungo, significa immergersi pienamente nell’esperienza, anche se difficile o spiacevole, viverla pienamente, lasciarla entrare nella carne, lasciarla muovere espandersi al proprio interno, essere intimi con essa.
Possiamo dire ancora meglio:
“prima sentire, poi sentire, poi sentire, poi ancora sentire, sentire, sentire……poi lasciar andare”
Arnoud Desjardin dice qualcosa di simile in “Aldilà dell’Io” quando afferma che
il vero jnana yoga (lo yoga della conoscenza) consista sostanzialmente in
questo: conoscere l’emozione direttamente.
Questa forma di conoscenza per intimità e adesione diretta, è di gran lunga più
importante della conoscenza dei testi sacri e degli insegnamenti filosofici.
Conoscenza diretta dell’esperienza in atto senza filtri concettuali o
scappatoie spirituali.
Solo dopo questo “conoscere” può avvenire il lasciar andare, anzi probabilmente
avverrà quasi naturalmente senza sforzo, come processo naturale di estinzione
dei fenomeni.
Prima sentire, sentire a lungo e in profondità. Divenire
intimi con l’esperienza in atto.
Solo dopo, ma molto dopo, lasciar andare.