Sentire ed Agire

Quando trascuriamo il nostro sentire corporeo, succede che le nostre azioni, le nostre parole, i comportamenti, le relazioni, vengono influenzate pesantemente da questo processo.

Quello che accade è più o meno questo: “Non so bene cosa sento ..ed agisco in base a questo non sentire”.

Agisco cioè a partire da questa distanza che si è creata tra me e il mio nucleo più profondo.

In questo modo qualunque azione io compia porterà sempre con sè una traccia di insoddisfazione profonda.

E spesso nel tentativo di compensare il “vuoto informativo” dovuto al mancato sentire, attivo in modo spropositato la mente pensante e rimuginante, che rimane però sempre più scollegata da una base corporea reale, innescando un circolo vizioso.
Come questo processo ci porti gradualmente a diventare “stranieri a noi stessi ne ho parlato qui

Il pensiero tenta di sostituire il sentire.

Ma naturalmente non può farlo.

Quindi non c’è molto da stupirsi se le nostre azioni generano difficoltà, incomprensioni, relazioni inappaganti conflitti ecc..

Il counseling corporeo, così come il metodo di yoga-counseling #evolvereattraversoichakra sono pensati appositamente per riconnetterti innanzitutto col tuo sentire autentico, con la verità che risiede nel corpo e che hai smesso di ascoltare.
Per saperne di più su cos’è il counseling espressivo o artcounseling e come opera, puoi leggere questo articolo E qui trovare un ulteriore approfondimento.

In secondo luogo per allineare le tue azioni con il tuo sentire.

Quando “so cosa sento e agisco in base a questo sentire” diventa il tema dominante della tua vita, le cose iniziano davvero a cambiare.

La consapevolezza diventa una forza trasformativa.

Il sentire autentico e reale, che è soltanto tuo e veramente tuo, inizia a guidarti nella vita e, credimi, non c’è guida più affidabile di questa.

Se ti senti pronto ad iniziare questo processo di cambiamento, questa avventura in cui ti riappropri del tuo sentire autentico e della tua identità essenziale, per agire e finalmente vivere a partire da essa contattami per fissare un incontro.


(pssss.. se sei lontano/a non ti preoccupare ..Ricevo anche via Skype…) 🙂

ArtCounseling. L’arte al servizio della crescita personale

La centralità del fare artistico-creativo per facilitare il cambiamento personale, e’ il tratto distintivo del counseling espressivo o Artcounseling.

Per counseling espressivo si intende secondo la definizione di E.Giusti  e I. Piombo:

“quel particolare approccio che usa le immagini, l’immaginario ed il fare artistico creativo.”

L’artcounselor abbina le sue competenze relazionali con la conoscenza del processo creativo e delle sue fasi.
Possiamo considerare il fare creativo come esso stesso una risorsa relazionale, e che la competenza relazionale, cioè il saper essere in relazione con l’altro in modo autentico fruttuoso ed evolutivo, non può prescindere dalla creatività.

La relazione di aiuto è essa stessa in un certo senso arte.
 


Quando parliamo di counseling artistico, ciò riguarda non solo utilizzo dell’arte in senso tecnico, ma la centralità dell’elemento creativo, in tutte le sue molteplici sfaccettature, nella relazione di aiuto.

Ci ricorda infatti  James Hilmann che:

“la psiche emerge quando siamo immersi nell’immagine, o ci perdiamo nei suoi labirinti”.

Un elemento a cui viene data grande centralità è sicuramente l’immagine e l’immaginario.

Le immagini possono avere molteplici origini e natura: possono provenire da suggestioni esterne, prese dall’ambiente, oppure generate dal cliente sotto forma di disegni, dipinti o scarabocchi, o anche immagini formulate verbalmente sotto forma di metafore, o ancora immagini corporee come gesti, movimenti o danze, oppure immagini interne suscitate ad esempio dalla fruizione di forme di arte e manufatti artistici.

Il contatto con le nostre parti più profonde e animiche dunque è particolarmente facilitato dall immagine che essendo più antica e primordiale della parola, risuona più facilmente con il linguaggio dell’anima.
Infatti, le parole che dispongono di più potere sono proprio quelle che hanno la capacità di evocare immagini significative.

Nel counseling espressivo come nell’arteterapia, il lavoro è orientato in direzione dell’unità e dell’integrità della persona, è fondamentale perciò che il counselor sia

“in grado di mettere in comunicazione parole ed immagini, cosi che il cliente veda ciò che produce come qualcosa di profondamente suo, di interiore , che lo aiuta a entrare in relazione con l’esterno, come una finestra sul mondo” . (Giusti, Piombo)

E’ proprio su questo gioco interno-esterno che si gioca gran parte dell’importanza e dell’efficacia del mezzo espressivo; consente infatti di tirare fuori, di esprimere qualcosa che accade dentro, attraverso un processo delicato e gentile, metaforico e analogico, e allo stesso tempo potente e denso di significato.

Questo spazio che è sia interno che esterno è qualcosa di simile a quello che Winnicot  ha chiamato “spazio transizionale”, ed è sede di esplorazione, gioco creatività e scoperta di sé.

La differenza fondamentale tra il processo artistico tout-court e l’artcounseling, è l’avvenire di questo all’interno di una relazione specifica e di un setting che costituiscono il contesto dinamico, la cornice di significato che è parte integrante nella costruzione del senso del processo e del prodotto artistico.

“La parola arte va intesa come potenzialità che ognuno ha di elaborare artisticamente il proprio vissuto e di trasmetterlo creativamente ad altri per facilitare uno stato di benessere, di esistere bene.” (Giusti, Piombo)

Il processo in cui accade l’espressione artistica è dunque fondamentale, ed è fondamentale il come ci si relaziona all’opera del cliente.

Il counselor sarà totalmente rispettoso del prodotto del cliente, lo accoglierà con calore e conferma, il cliente potrà così sentirsi accettato e al sicuro e saprà di potersi fidare, e dunque esprimersi liberamente.

L’esplorazione del prodotto artistico è un momento molto importante e delicato, l’artcounselor in quel momento è un po’ come il genitore (affettivo-positivo) che osserva l’opera del bambino-cliente.

Attraverso il fare artistico è più facile bypassare difese e meccanismi di censura, giacché sembra che in fondo si tratti “soltanto” di un disegno o di un manufatto, di un immagine presa da una rivista, o della scelta un colore.

Parlare del colore, delle forme, dei materiali scelti è una modalità morbida e metaforica per parlare del mondo interno del cliente senza chiamarlo direttamente in causa, mettendo dunque il cliente in grado di abbassare le proprie difese e favorire il processo di autoconoscimento.

In questo modo, attraverso l’accoglienza empatica del lavoro del cliente, si possono costruire la sicurezza e la fiducia che sono alla base dell’alleanza operativa. L’accoglienza incondizionata del processo creativo del cliente rimanda immediatamente, per analogia, all’accettazione della sua persona in quanto tale, e va di pari passo con essa.


Il cliente inoltre può prendere una certa distanza dal suo prodotto, fintanto che riesce a sentirsi a suo agio, nella relazione con esso (osservandolo, descrivendolo) può cioè calibrare la distanza che mette tra sé e quel qualcosa che è emerso dalla sua esperienza, ed ora gli appare in una forma oggettivata.
Oggettivata, qui va inteso non tanto nel senso negativo di reificata e irrigidita, ma al contrario: l’oggettivazione la rende osservabile, conoscibile, manipolabile e soprattutto trasformabile.

Il counselor comunque incoraggerà il cliente a riconoscere come suo il prodotto creativo aiutandolo a costruire dei ponti fra mondo interno e la sua espressione esterna.
Altri ponti interessanti possono essere costruiti usando il prodotto artistico come metafora per leggere con un nuovo sguardo, eventi e situazioni nella vita reale del cliente.

L’uso dell’espressione artistica nel processo di counseling, ha inoltre la finalità di promuovere l’autoconsapevolezza del cliente e la crescita personale, sottolineando  la centralità della creatività come una risorsa e cruciale da promuovere e risvegliare nella persona.


Perché si possa parlare di una vera crescita e una vera consapevolezza, non si può prescindere da un approccio creativo e aperto alla vita.
Per vivere autenticamente ci è richiesta la capacità di poter abbandonare territori già frequentati, i percorsi noti e stabiliti, e di emanciparsi da modi di essere tendenzialmente automatici e dettati dal confort.

Le Emozioni “Parassite”: conoscerle, riconoscerle, trasformarle..

Nell’ Analisi transazionale, si parla di
“emozioni parassite”, come di quelle “emozioni familiari apprese e incoraggiate nell’infanzia, vissute in diverse situazioni di stress e inadatte quale mezzo di risoluzione dei problemi.”

Sono dunque emozioni che abbiamo imparato a mettere in atto nei nostri contesti familiari, spesso perché esplicitamente incoraggiate o perché le sole consentite a scapito di altre invece non accettate o scoraggiate. Penso ad  esempio che fino a pochi anni fa non era raro purtroppo sentire un genitore dire al proprio figlio maschio “..non piangere i maschietti non piangono, non sei mica una femminuccia!”

In alcuni ambienti familiari può essere una sorta di tabù manifestare alcune emozioni mentre altre vengono incoraggiate e promosse. Ogni famiglia ha una sua gamma di emozioni permesse e consentite, ed una gamma di emozioni che invece vengono inibite.

Un modo in cui apprendiamo le nostre competenze emotive, quindi è tendenzialmente inconscio, per imitazione dei nostri genitori e di altre figure significative, vedendo e risuonando con il loro stile emotivo, il modo in cui cioè vivono esprimono e comunicano il proprio mondo emotivo.

Io ricordo ad esempio l’imbarazzo e il timore di mio padre nelle situazioni sociali, anche quelle molto semplici come l’interazione con un barista. Quella percezione mi ha molto influenzato trasmettendomi innanzitutto confusione e una sorta di sfiducia nelle mie percezioni, nel mio sistema di valutazione, perché in qualche modo mi veniva segnalato che una situazione, che io percepivo del tutto innocua, fosse invece, in un modo che non riuscivo a comprendere, pericolosa, minacciosa, o comunque fonte di stress e tensione.
Allo stesso tempo è difficile sentirsi protetti se percepiamo paura proprio nella figura che dovrebbe proteggerci e accudirci, di conseguenza finivo per provare paura anche io e senza comprenderne il motivo.

Come facciamo a riconoscere un’emozione parassita da una funzionale?

C’è una considerazione molto semplice che possiamo fare:

 Le emozioni parassite sono inadatte a risolvere efficacemente un problema o una sfida che incontriamo.

Molto spesso sono loro stesse a creare un problema.
Se sto camminando in un bosco e improvvisamente avverto un rumore sinistro dietro un cespuglio che non so decifrare, la paura che provo fa allertare il mio sistema nervoso, muscolare posturale e respiratorio, acutizza le mie percezioni e mi dispone ad una reazione di lotta o fuga. E’ un emozione del tutto funzionale alla situazione, se devo scappare predispone efficacemente il sistema motorio alla reazione di fuga.
Provare una paura che arriva a bloccarci invece, ad esempio quando vogliamo esprimere un nostro bisogno al partner o fare una richiesta al nostro capo, non ci aiuta ad ottenere il nostro scopo che è la comunicazione e la soddisfazione dei un bisogno.

 Quando proviamo una qualsiasi emozione possiamo chiederci se sia effettivamente adeguata e funzionale al qui e ora della situazione. Se non lo è, secondo l’AT, stiamo nel copione, cioè stiamo seguendo un “piano di vita che si basa su di una decisione presa durante l’infanzia, rinforzata dai genitori, giustificata dagli avvenimenti successivi e che culmina in una scelta decisiva” (E. Berne)

La domanda che apre all’esperienza e nutre la consapevolezza è questa:

“Quest’emozione è veramente connessa con la situazione presente o proviene da qualche condizionamento del passato?”



Provate a chiedervelo quando intuite che quell’emozione che provate ha qualcosa che non vi torna, vi sembra forse un p troppo intensa o inadatta o semplicemente un po’ strana, insomma richiama la vostra attenzione in qualche modo, o verso la quale vi sentite a disagio.

Per questo, l’emozione non si rivela utile e funzionale al qui e ora, perché non nasce realmente nel qui e ora, ma proviene da una risonanza del passato risvegliata dalla situazione attuale e rimette in atto un’ antica strategia adattiva che diventa però oggi una costrizione, una sorta di obbligo a rivivere certe situazioni.

 Alcuni segnali corporei dell’emozione parassita sono  quelli di essere o iperattivanti o iperbloccanti; si ha una percezione che l’ energia che non circoli liberamente, o in eccesso o troppo in ribasso, depotenzianti o ansiogene ,  inoltre durano più a lungo, lasciano tracce per un periodo più lungo, nonché spesso, scie di pensieri ridondanti.

In un percorso di counseling espressivo e corporeo, possiamo apprendere nuove strategie per dare forma creativamente alle nostre emozioni, a riconoscerne i segnali corporei, imparare a gestirle e a trasformarle anche attraverso il movimento creativo ed il gesto espressivo.
Possiamo fare in modo che da parassite, che succhiano la nostra energia, possano diventare nostre alleate ed utili amiche.

STRANIERI A NOI STESSI. Il viaggio interiore, dall’Estraneità all’Intimità

Siamo spesso stranieri a noi stessi.
Lo siamo in vario modo, a cominciare dal corpo, vissuto molte volte come un oggetto, come qualcosa che “abbiamo” e che può funzionare bene o male, che crea fastidio oppure sta bene, che va allenato.
Un oggetto oppure un mezzo per fare o per apparire, quasi mai vissuto e pensato come “me stesso”.

Perché è vero da un lato che il corpo non ci appartiene interamente, che non lo possiamo controllare del tutto, per quanto bene viviamo e curiamo la salute, non possiamo evitare la malattia, e un giorno, la morte.

O più semplicemente spesso non controlliamo ciò che appare nel corpo sotto forma di pensieri ed emozioni, stati affettivi, che appaiono e scompaiono senza chiedere il nostro parere in proposito. 

Oppure pensiamo ai processi fisiologici naturali che accadono indipendentemente dalla volontà, come il respiro, la digestione il battito cardiaco. 


Pensiamo al battito del cuore che  non possiamo controllare volontariamente (forse solo alcuni yogi ci riescono) e che è paradossalmente proprio l’espressione centrale della vita in noi.

Dentro di noi il cuore pulsa spinge sostiene la vita e questo qualcosa di così essenziale non dipende da noi, non è sotto il nostro controllo.
Per dirlo con le parole di Massimo Recalcati, sperimentiamo che “la vita travalica la vita”. 

Così è anche il nostro nome, così intimo e familiare, eppure ci viene dato da altri, ci viene “imposto”, quindi se da un lato ci è estraneo, dall’altro in esso ci riconosciamo profondamente ed intimamente. 

Le parti di noi che non riconosciamo, ci sono estranee, le emozioni che non accettiamo, sono lo straniero in noi. Straniero che parla altre lingue, altre grammatiche, che abbiamo disimparato o mai appreso, e che è necessario tornare ad apprendere, tradurre per assimilarle e integrarle.
A volte queste parti sono state completamente ridotte al silenzio e quindi diventate ancora più pienamente estranee, forse visibili solo attraverso la “proiezione”. 

Sappiamo bene da tutte le tematiche relative all’ombra, che se queste parti restano non viste, non ascoltate, non riconosciute, diventeranno sempre più potenti  ingigantiscono involvendosi, agendo al di sotto della coscienza condizionandoci fortemente.


Dunque è a partire da questa estraneità verso noi stessi che può partire un interrogarsi sulla paura dell’altro, non necessariamente lo straniero ufficialmente riconosciuto come tale, ma anche semplicemente l’altro, il prossimo.
Su questo prossimo, (l’impiegato delle poste, la persona accanto a noi sulla metro, il partner) probabilmente proiettiamo molte delle paure che nutriamo nei confronti del nostro straniero interiore, di tutte quelle parti estranee a noi stessi che stentiamo a riconoscere. 

Mi sembra quindi di poter dire che più siamo estranei a noi stessi più siamo chiusi e impauriti di fronte all’altro. 

Un processo di integrazione, di chiarificazione e autoconoscenza ci porta invece nella direzione opposta, dell’apertura, della disponibilità, dell’ascolto.
Prima di tutto dunque occorre familiarizzare e incontrare ciò che ci appare come potenzialmente estraneo in noi stessi. 

Potremmo riflettere anche sul cos’è che consideriamo noi, ciòè su ciò che abbiamo potere e controllo. Se c’è qualcosa che sfugge al mio controllo non sono io. 

Ma è davvero così? Posso dire di non essere anche il mio cuore, il mio intestino il mio respiro, o l’agitazione che talvolta provo nello stomaco, i processi metabolici non siano davvero miei? 

Non posso identificarmi con una volontà più ampia che opera a prescindere da una più ristretta che identifico come io?
Non posso rispecchiarmi nella vita intera che sfugge ai tentativi di controllo e manipolazione?

Il fiore nel campo mi è davvero più estraneo di un pensiero che attraversa la mente?
Non è che allora forse divento estraneo a me stesso quando mi identifico solo con una parte?

Per familiarizzare con lo straniero o con l’ estraneo occorre imparare a comunicare con la sua lingua, imparare il linguaggio dell’”altro” come estensione e arricchimento del mio.
Il linguaggio del corpo ad esempio, spesso lo abbiamo dimenticato, frainteso, spesso ci risulta incomprensibile, e anziché apprenderlo  reimpararlo umilmente lo mettiamo volentieri a tacere.

La diversità dei linguaggi, l’impossibilità di parlare una sola lingua costringe ad “imparare la lingua dell’altro” a tradurre continuamente, a cambiare punto di vista e prospettiva a rendere permeabili i confini senza cancellarli. 

Penso alla membrana cellulare come a metafora vivente di questo processo. La sua membrana è porosa e lascia passare il nutrimento necessario traducendolo in “se stessa”.

Così è ogni forma di nutrimento, così è il respiro.

La necessità di tradurre conduce all’apertura all’ altro alla necessità di esplorare più linguaggi in cui il reale si può esprimere e descrivere, abbandonando il mito di unica forma che racchiuda tutto. 

Non a caso i miti razzisti prevedono l’omogeneità, la riduzione ad uno della molteplicità. Questa riduzione avviene attraverso l’esclusione, la cancellazione, l’appiattimento.

Credo però che abbia comunque valore una prospettiva di unificazione su un livello chiaramente superiore, non di riduzione delle differenze, ma di integrazione su un livello superiore, e credo anche che in realtà quella lingua che integra tutto, senza cancellare nulla, esista e che sia il silenzio. 

Il silenzio come ascolto meditativo infatti lascia cantare ogni singola voce dell’esistenza in uno spazio illimitato che è in grado di accogliere ogni singola voce, includendola senza cancellarla.

Penetrando silenziosamente nel particolare, nel suono, nella vibrazione specifica di ogni angolo di vita, ci apriamo così umilmente all’universale al senza limiti, all’infinito.

Abbracciando nel silenzio quella che ci appare ad uno sguardo distratto e superficiale come estraneità e che eppure sentiamo profondamente nostra, aprendoci al mistero, apprendendo il linguaggio del silenzio, dell’ascolto e della ricettività,  creiamo uno spazio di avvicinamento e di intimità.

In quello spazio possiamo davvero essere intimi con la nostra presunta estraneità, incontrarla e riconoscerla, intimi con il processo stesso della vita che travalica il piccolo io, le nostre limitate identificazioni.
Iniziamo così  ad intravedere ed intuire l’unità che comprende e connette tutto.

Essere soli. Esplorare il vuoto interiore

Sentirsi interiormente soli, anche se si hanno molte relazioni sociali, sembra essere una condizione sempre più diffusa.

Vorrei portare l’attenzione su un tipo speciale di solitudine: il sentirsi soli rispetto a se stessi.

Questa nasce a mio avviso quando si è rinunciato a parti importanti del proprio sé, si è mutilata la propria personalità in funzione di un io che ha privilegiato l’adattamento alle richieste dell’ambiente.

In questo caso è la relazione con se stessi a presentare delle importanti carenze

Si sperimenta un senso di impoverimento del proprio sé, con il quale non si riesce a stare in contatto in modo soddisfacente, né a comunicare autenticamente.

Avendo abbandonato alcune parti di sé, (il bambino libero, la parte creativa, il poter sentire alcune emozioni, le aspirazioni profonde) ci rende più soli internamente, più poveri.

Questo processo mina alle fondamenta anche la fiducia in noi stessi, perché in un certo senso ci siamo abbandonati, o ci sentiamo come se in qualche modo ci fossimo traditi da soli.

Il nostro Sé profondo o anima se vogliamo, vive come tradimento la sua nemesi, il fatto che la personalità lo dimentichi o faccia finta che non esista, vivendo scollegata da lui.

E la personalità così costruita in modo carente sente la mancanza del legame coni qualcosa di essenziale con una fonte di nutrimento originaria da cui attingere e da cui prendere forma.

E’ come sentire che in qualche modo non si può fare completo affidamento su di sé perché si sono costruiti dei vuoti, delle carenze.
Comunicare con sé stessi diventa un’esperienza dolorosa, come cercare di entrare in contatto con un assenza con un vuoto interiore, con la traccia di qualcosa che è stato.

Questo tipo di solitudine è molto difficile da tollerare perché la persona non riesce a stare con se stessa ad incontrarsi senza sentire disagio vuoto, ostilità incompletezza. Difficilmente chi la sperimenta diventerà un meditante.

Un meccanismo di fuga infatti consiste proprio nel ricercare ossessivamente la compagnia dell’esterno, l’appoggiarsi agli altri che sfocia spesso nella dipendenza emotiva.

Queste relazioni però difficilmente si rivelano appaganti in quanto fondamentalmente inautentiche, in quanto ciò che manca nel sé mancherà anche nella relazione o verrà ricercato compulsivamente nell’altro.

L’uscita da questo stato implica un lavoro su se stessi teso a recuperare e a rivitalizzare gli aspetti che al proprio interno si sono atrofizzati, attraverso la riscoperta della creatività, il gioco, la meditazione, la comunicazione autentica, la relazione, la bellezza.

Allo stesso tempo è necessario entrare in contatto con questo senso di vuoto interno, anche se doloroso, smettere di evitarlo, e disporsi ad attraversarlo.

Le pratiche intuitive e simboliche del counseling espressivo, il risveglio del corpo attraverso le diverse pratiche di movimento corporeo possono costituire dei validi percorsi per ritrovare parti di noi perdute sopite o dimenticate.

Si può riscoprire una ricchezza interiore di cui non si era consapevoli, e iniziare anche a percepire e ricercare la solitudine come un’opportunità di ascolto, autoconoscenza e crescita.

Da questo processo, da questa maggiore pienezza interiore, anche le relazioni non possono che risultare arricchite e rivitalizzate.

E’ il passato o il presente a condizionarci di più?

Spesso pensiamo che sia il passato a condizionarci.

Questa però se ci riflettiamo bene è una convinzione che nutriamo nel presente.
Potremmo dire perciò che non è tanto il nostro passato a condizionarci, quanto le storie che ci raccontiamo sul nostro passato.

E’ il modo con cui viviamo oggi ciò che sappiamo del passato, a influenzarci.

Questo sapere è anche un sapere “immagazzinato” nel corpo, che viene vissuto attualmente come tono affettivo-muscolare, modi caratteristici di muoversi e di respirare, tensioni o aree ipoenergetiche, umore di base.

Queste storie che ci raccontiamo, che spesso il corpo stesso racconta, è nel presente che vengono tessute ed elaborate, ricordate ed esperite.

Quindi può rivelarsi molto più utile disporsi in un assetto mentale in cui riconosciamo che è ciò che oggi facciamo e continuiamo a fare, ad influenzarci.


Anche ciò che pensiamo di sapere del nostro passato dunque, è una costruzione che teniamo viva nell’oggi.

Il nostro passato infatti non è mai un fatto oggettivo, ma è sempre una ricostruzione, a volte cosciente a volte meno, una rielaborazione che a diversi stadi della vita il nostro corpo-mente compie.

Ciò che ancora di più è singolare e interessante è che queste storie, queste narrazioni, spesso sono lasciate un po’ al caso; le tessiamo quando siamo di cattivo umore, ci facciamo facilmente influenzare dalle opinioni altrui, o si generano un po’ automaticamente attraverso il rimuginare della mente.
Spesso se ci facciamo caso, ci rendiamo conto che non siamo noi a generare le storie, ma sono le storie a generare in qualche modo il nostro io.

Quindi sembra che sia molto importante decidere in modo autonomo deliberato e cosciente, quali storie vogliamo narrare e come lo vogliamo fare, dove vogliamo che ci portino.

Le storie che ci narriamo automaticamente, attraverso schemi condizionati, hanno un carattere depotenziante, consumano le nostre risorse, tendono ad essere ripetitive e stantie.

Anche se alcuni atteggiamenti hanno un’origine lontana, è nell’oggi che si manifestano ed operano secondo modalità specifiche e individuabili

Quindi ciò che sembra importante è il come oggi nel presente scegliamo coscientemente di narrare la nostra identità, i nostri passi le nostre esperienze fondamentali.
Soprattutto è importante coltivare una prospettiva che partendo dal presente apra un senso di fiducia nel “dopo”, nel dove vogliamo che la nostra storia ci porti, nella direzione che possiamo prospettare.

Questo modo di guardare ai diversi eventi della vita, è radicato nel qui e ora, ed appartiene pienamente all’ambito di competenza del counseling, in quanto non punta a rivivere esperienze del lontano passato per risolverle, ma sceglie oggi modi nuovi di raccontare e narrare esperienze che ruotano sempre intorno all’asse del presente.
Un presente allargato che raccoglie stimoli da altri momenti della vita, e li unifica nel qui e ora, in una nuova e viva narrazione.

Inoltre nel percorso di counseling, si lavora su come oggi quei meccanismi condizionanti operano, ed è portando sul loro processo una consapevolezza rinnovata che si possono attivare scelte differenti.

L’esperienza artistica, la creatività come viene utilizzata nel counseling espressivo, o artcounseling permette di ri-narrare il nostro sé in forme sempre diverse, nuove, dinamiche.

 La creatività in ogni sua forma, attinge all’energia del cambiamento, della trasformazione, del permettersi di cambiare strada e di agire fuori dagli schemi consueti, rimanendo in contatto anche con l’imbarazzo, il disagio, il vuoto, l’insicurezza, trasformandoli in risorse.

Il setting di un Art Counselor, fornisce un ambiente contenitivo a tutte queste difficili emozioni, un contesto per esplorarle e trasformarle creativamente. Così attraverso l‘arte e il fare creativo, creiamo nuove storie nel presente che vanno a costruire il processo del nostro sé in maniera fluida e personale. Ciò che si sperimenta solitamente è un grande senso di potere personale, la capacità di riuscire, di poter fare, poter essere, e poter decidere sulla propria vita attingendo ad uno spettro di risorse sempre più ampio.

Oltre il recinto c’è la vita. Cambiare si può

Cambiare è rischioso e comporta impegno e fatica.

Richiede di aprirsi al nuovo, di avventurarsi nello sconosciuto.

Non tutti sono disposti ad uscire da ciò che è familiare e rassicurante, dalla sfera delle abitudini acquisite.

Ci si avvicina alla possibilità del cambiamento spesso attraverso il dubbio, l’incertezza o la paura, o attraverso un “economia energetica” che lo valuta troppo dispendioso o faticoso, la nostra terribile finanziaria personale; la BCE che è dentro di noi.

Così molti permangono nella stagnazione del già noto.

E’ curioso notare invece come l’energia spesa in un cammino di crescita sia simile ad investimento molto produttivo: si ha un enorme ritorno in termini di vitalità, autostima, entusiasmo, potere personale, fiducia.

La fatica del cammino interiore è una fatica che nutre, e non svuota.
Mentre la “non-fatica” del non-cambiamento svuota e non nutre.

Così alcuni, la maggior parte a dire il vero, sono spinti ad intraprendere un percorso di cambiamento quando la fatica del rimanere nella condizione attuale diventa troppo alta e inizia a superare quella che si immagina debba venir spesa per avviare un processo di trasformazione.

Questo tipo di motivazione ad iniziare un cammino (che sia un percorso di counseling, arteterapia, una psicoterapia, oppure un cammino spirituale -meditativo, o altro) è a mio avviso di tipo “autoprotettivo”, è volto a tutelare se stessi dal peggio.
Si sceglie di cambiare perché si è quasi costretti, per non peggiorare, perché così non si può continuare.

Questa motivazione autoprotettiva, sebbene abbia il pregio della urgenza e della spinta della necessità, spesso tende ad indebolirsi lungo il percorso e tende ad esaurirsi facilmente non appena un adattamento accettabile viene raggiunto.
L’inerzia iniziale spesso si ripresenta giusto qualche passo più in là.

Oppure si può intraprendere un cammino perché si intuisce o si è sperimentata in qualche modo l’energia del cambiamento volontario, la fatica nutriente dell’impegno e della responsabilità, la freschezza rinnovante della disciplina interiore, il gusto dell’avventura dell’ignoto che ci riavvicina a noi stessi.

Questo cambiamento è volontario, proattivo e in un certo senso gratuito.

Nasce quando si riattiva in noi la “pulsione autorealizzativa”, la tendenza all’autocompimento, la spinta verso il pieno sviluppo della personalità umana, di cui parlano le tradizioni spirituali, la filosofia e la psicologia umanistica.

Anche questo cammino nasce da una sorta di disagio, di un sentore dell’indisponibilità interiore a lasciare tutto com’è, ma non tanto per una costrizione della sofferenza quanto più per una intuizione, una visione di una vita piena, di ricchezza esistenziale, di una felicità possibile.

Il cammino richiede impegno, ma come dicevamo, ci ripaga con una moneta di più alto valore, ci restituisce la verità di noi stessi, la nostra umanità e autenticità.
E non c’è sicurezza, agio o zona di confort che possa valere altrettanto.


Si comprende che si può essere di più e altro, che la crescita e lo sviluppo attraversano tutte le età, che si può amare, gioire e anche soffrire, di più e meglio, pienamente e in modi sempre nuovi, insomma che “oltre il recinto c’è la vita”, e quella vita è una sorgente ricca che si vuole assaporare, gustare onorare e celebrare.

Il vero cambiamento comunque non è diventare qualcos’altro, ma è tornare a se stessi, alla nostra essenza sacra e originaria, piuttosto che continuare a sfuggirvi.