Prima “sentire” poi “lasciar andare”

Negli insegnamenti spirituali ricorre spesso l’esortazione al “lasciar andare”, inteso come espressione pratica del non-attaccamento.

Molti, sia tra i miei allievi di yoga che tra i clienti nei percorsi di counseling, sono affascinati da questo insegnamento e allo stesso tempo lo temono o dichiarano molta difficoltà nel metterlo in pratica.

Mi rendo conto sempre di più di come in realtà spesso venga frainteso.

Ad esempio poco tempo fà una mia studentessa alla fine della classe di yoga-mindfulness mi dice che durante tutta la pratica ha trovato molta difficoltà nel lasciar andare una sensazione di costrizione nel petto dovuta ad un emozione di rabbia.
Rimango un po’ perplesso, ed esplorando insieme mi accorgo che ha confuso il “lasciar andare” con il respingere, il cercare di sbarazzarsi di qualcosa.

La sua fatica e il suo sforzo derivavano dal tentativo ricorrente durante tutta la pratica di mandar via quella sensazione spiacevole. Mentre cercava di sbarazzarsene pensava di star praticando il lasciar andare senza però riuscirci.

Credo che questo sia un errore molto comune in cui possono facilmente imbattersi anche  praticanti più esperti.

Si può confondere il lasciar andare, che è qualcosa che accade quando non c’è lo sforzo di trattenere un esperienza, come una mano che si apre quando smettiamo di contrarla, con lo sforzo attivo e generante tensione innescato dal cercare di liberarsi di qualcosa di spiacevole.

In questo modo inganniamo noi stessi usando il discorso spirituale; ci raccontiamo che ci stiamo impegnando a lasciar andare, quindi  pensiamo che la nostra intenzione sia corretta; siamo dei bravi praticanti che si sforzano giustamente, ..e più mi sforzo e più non ci riesco.. però almeno sono un praticante sempre più volenteroso..

Quando dici che lasciar andare è difficile, in molti casi non si tratta veramente di lasciar andare, ma è il tentativo di camuffare qualcosa di molto più basilare e allo stesso tempo sfuggente, e cioè l’avversione nei confronti dello spiacevole ed il tentativo di eliminarlo.

Ovviamente in questi casi non si può che inscenare una lotta che sicuramente rafforzerà il ciò di cui vogliamo liberarci

Questo modo di lasciar andare inoltre non funziona per altri due motivi:
primo perché da un lato non è un vero lasciar andare, e secondo perché si vuole lasciar andare prima di aver fatto un esperienza piena di quell’emozione, sensazione, sentimento, ecc..

(Se vuoi approfondire l’argomento, puoi trovare altri spunti sulla pratica del “lasciar andare” qui)

Quello che è necessario comprendere è che non possiamo lasciar andare qualcosa di cui non facciamo pienamente esperienza.

Non possiamo lasciare un luogo che non abbiamo attraversato.

Non possiamo lasciar andare qualcosa senza prima averlo sentito pienamente.

Quindi possiamo riassumere sinteticamente così la pratica corretta:

“Prima sentire, poi lasciar andare”.

Dove quel sentire non è un sentire fugace prima di scansare, ma qualcosa che può anche durare molto a lungo, significa immergersi pienamente nell’esperienza, anche se difficile o spiacevole, viverla pienamente, lasciarla entrare nella carne, lasciarla muovere espandersi al proprio interno, essere intimi con essa. 

Possiamo dire ancora meglio:
“prima sentire, poi sentire, poi sentire, poi ancora sentire, sentire, sentire……poi lasciar andare”


Arnoud Desjardin dice qualcosa di simile in “Aldilà dell’Io” quando afferma che il vero jnana yoga (lo yoga della conoscenza) consista sostanzialmente in questo: conoscere l’emozione direttamente.
Questa forma di conoscenza per intimità e adesione diretta, è di gran lunga più importante della conoscenza dei testi sacri e degli insegnamenti filosofici.
Conoscenza diretta dell’esperienza in atto senza filtri concettuali o scappatoie spirituali.

Solo dopo questo “conoscere” può avvenire il lasciar andare, anzi probabilmente avverrà quasi naturalmente senza sforzo, come processo naturale di estinzione dei fenomeni.

Prima sentire, sentire a lungo e in profondità. Divenire intimi con l’esperienza in atto.
Solo dopo, ma molto dopo, lasciar andare.

Yoga & Mindfulness: Due sentieri con molto punti di incontro

“Come il grande oceano ha un unico sapore, quello del sale, così il Dharma ha un unico sapore, quello della libertà;” (Buddha)

Nel corso di Yoga & Mindfulness vengono utilizzate insieme in modo integrato e sinergico, pratiche di mindfulness ed esercizi di ’hatha yoga, vediamo come e perché.

La mindfulness riguarda fondamentalmente lo sviluppo e la coltivazione di un’attitudine interiore, una facoltà della mente di cui tutti siamo dotati.

Si tratta fondamentalmente della capacità di conoscere senza giudicare.

E’ la capacità di sostenere l’attenzione su ciò che si presenta all’esperienza, momento per momento, in modo intenzionale e privo di giudizi, valutazioni e comparazioni.

Come sappiamo però, purtroppo la nostra mente funziona spesso in tutt’altro modo: la nostra l’attenzione è spesso instabile, dipendente dalle circostanze, si sposta rapidamente avanti e indietro nel tempo.
La nostra mente discorsiva è in perenne movimento, le nostre proiezioni e anticipazioni si sovrappongono costantemente alla realtà generandone un esperienza distorta, parziale, deformata, e spesso inaffidabile, in quanto governata dalle reazioni automatiche che si innescano al momento.

Questo è esattamente uno dei fattori principali che il Buddha individuava alla radice della sofferenza umana e dell’insoddisfazione generalizzata di cui ognuno di noi ha fatto almeno una volta esperienza.

Il retroterra  principale della mindfulness sono infatti gli insegnamenti del Buddha relativi alla natura della sofferenza  e alle pratiche che ne consentono il superamento.
Non è tanto l’aspetto religioso-rituale che qui interessa del buddhismo quanto la sua “psicologia spirituale” che in sintesi è un cammino in grado di accompagnarci alla libertà dalla sofferenza, e quindi ad una felicità profonda e ad un senso compiuto dell’esistenza.

La mindfulness è quindi sia un insieme di pratiche meditative, che un atteggiamento, una disposizione interiore che si può applicare a qualunque campo della vita.

Questi due momenti sono sempre tenuti insieme nelle nostre lezioni: ciò a cui miriamo soprattutto è la disposizione interna ad un ascolto attento e ricettivo, di ciò che accade al nostro interno, e fuori di noi.

Naturalmente questo aspetto è presente in altre altre tradizioni sapienziali, così come ovviamente nello yoga. Quello che qui si intende fare è dargli un posto di particolare rilievo ed importanza all’interno della pratica.

In questo corso si dà quindi la priorità all’esercitarsi nel coltivare l’attitudine ad aprirsi all’esperienza in atto senza frapporre i nostri giudizi condizionati tra noi ed essa.
O meglio, si impara progressivamente a riconoscere i nostri filtri condizionati e a farne progressivamente a meno, arricchendo la nostra esperienza e la nostra libertà.

Ci si apre così, ad uno sguardo rinnovato nei confronti della realtà ed anche verso noi stessi.

Ciò che soprattutto mira a sviluppare la pratica di yoga-mindfulness è la consapevolezza-saggezza (sati-sampajanna): cioè il divenire sempre più attenti e presenti a tutto ciò che nella nostra vita genera significato, soddisfazione autentica,  felicità, e ad accorgerci sempre meglio di come le nostre azioni generate sull’onda delle abitudini acquisite, possano invece portare a disagio sofferenza, stagnazione, insoddisfazione.
 
Più siamo consapevoli dei meccanismi che generano la sofferenza e più siamo in grado di scegliere liberamente se assecondarli o meno.

Lo yoga-mindfulness è chiaramente un cammino di autoconoscenza e progressivamente di autoliberazione.

Questa consapevolezza si coltiva in diversi modi, ma in particolare attraverso l’attenzione e l’ascolto del corpo.
E’ qui che la mindfulness e il suo retroterra si sposano magistralmente con la pratica dell’hatha yoga che consente di risvegliare la nostra coscienza del corpo, ci richiama a sentirlo e ad abitarlo consapevolmente.

Le posizioni ed i movimenti dello yoga, le pratiche di espansione del respiro, attivano una rinnovata consapevolezza del nostro corpo e rendono la nostra mente più chiara e sveglia, favoriscono lo stabilizzarsi dell’attenzione e risvegliano i nostri sensi.

Meno il corpo è teso, meno è rigido, più si libera energia vitale che diventa disponibile per l’attenzione la consapevolezza e la gioia spontanea.
La consapevolezza, l’ascolto interessato, la capacità di vivere pienamente il qui e ora, sono infatti strettamente legati all’energia disponibile e correttamente circolante nel sistema corpo-mente.
Le pratiche yogiche quindi vanno a liberare e far circolare l’energia vitale che normalmente viene intrappolata in tensioni corporee, disallineamenti posturali, limitazione del respiro, emozioni non consapevolizzate, rimuginazione mentale.

Nello yoga-mindfulness, tutte le pratiche corporee hanno principalmente lo scopo di risvegliare la nostra consapevolezza e di portarla nel qui e ora, la dove la nostra vita sta realmente accadendo.

L’ascolto “religioso” del corpo, la connessione con le sensazioni che accadono momento per momento sono elementi costanti ed essenziali nella nostra pratica.

E’ il corpo stesso, nei suoi movimenti, così come nelle posizioni o nel susseguirsi degli atti respiratori ad essere quel luogo “sacro” e allo stesso tempo concretamente vivo e dinamico, dove la mente può stabilizzarsi, sincronizzarsi con i ritmi biologici e trovare dimora, dove  assaporare l’unicità dell’istante.

Le pratiche di mindfulness più specificamente meditative sono molto semplici e si basano principalmente sul portare l’attenzione al respiro, mantenercela e riportarcela con un movimento intenzionale e delicato allo stesso tempo, qualcosa di simile ad una danza.

Esistono poi una serie di pratiche cosiddette “informali” che si rivelano molto utili a portare nella vita quelle attitudini che vengono esercitate nella lezione, come la meditazione camminata o la meditazione del cibo e delle azioni quotidiane. Queste pratiche sono anche un ricco terreno di esplorazione di se stessi e delle proprie dinamiche, e spesso occasione di fertile condivisione nelle lezioni.

Tutto questo viene proposto con una metodologia progressiva e gentile, rispettosa dei tempi, delle modalità e delle aspirazioni di ciascun praticante.

La pratica di yoga- mindfulness ci conduce quindi verso la dimensione dell’essere, intrisa di libertà e appagamento, in alternativa alla dimensione del fare, in cui dominano automatismi e insoddisfazione, nella quale siamo spesso intrappolati.

Il nostro fare nella pratica è funzionale all’essere e serve unicamente a nutrirlo.

STRANIERI A NOI STESSI. Il viaggio interiore, dall’Estraneità all’Intimità

Siamo spesso stranieri a noi stessi.
Lo siamo in vario modo, a cominciare dal corpo, vissuto molte volte come un oggetto, come qualcosa che “abbiamo” e che può funzionare bene o male, che crea fastidio oppure sta bene, che va allenato.
Un oggetto oppure un mezzo per fare o per apparire, quasi mai vissuto e pensato come “me stesso”.

Perché è vero da un lato che il corpo non ci appartiene interamente, che non lo possiamo controllare del tutto, per quanto bene viviamo e curiamo la salute, non possiamo evitare la malattia, e un giorno, la morte.

O più semplicemente spesso non controlliamo ciò che appare nel corpo sotto forma di pensieri ed emozioni, stati affettivi, che appaiono e scompaiono senza chiedere il nostro parere in proposito. 

Oppure pensiamo ai processi fisiologici naturali che accadono indipendentemente dalla volontà, come il respiro, la digestione il battito cardiaco. 


Pensiamo al battito del cuore che  non possiamo controllare volontariamente (forse solo alcuni yogi ci riescono) e che è paradossalmente proprio l’espressione centrale della vita in noi.

Dentro di noi il cuore pulsa spinge sostiene la vita e questo qualcosa di così essenziale non dipende da noi, non è sotto il nostro controllo.
Per dirlo con le parole di Massimo Recalcati, sperimentiamo che “la vita travalica la vita”. 

Così è anche il nostro nome, così intimo e familiare, eppure ci viene dato da altri, ci viene “imposto”, quindi se da un lato ci è estraneo, dall’altro in esso ci riconosciamo profondamente ed intimamente. 

Le parti di noi che non riconosciamo, ci sono estranee, le emozioni che non accettiamo, sono lo straniero in noi. Straniero che parla altre lingue, altre grammatiche, che abbiamo disimparato o mai appreso, e che è necessario tornare ad apprendere, tradurre per assimilarle e integrarle.
A volte queste parti sono state completamente ridotte al silenzio e quindi diventate ancora più pienamente estranee, forse visibili solo attraverso la “proiezione”. 

Sappiamo bene da tutte le tematiche relative all’ombra, che se queste parti restano non viste, non ascoltate, non riconosciute, diventeranno sempre più potenti  ingigantiscono involvendosi, agendo al di sotto della coscienza condizionandoci fortemente.


Dunque è a partire da questa estraneità verso noi stessi che può partire un interrogarsi sulla paura dell’altro, non necessariamente lo straniero ufficialmente riconosciuto come tale, ma anche semplicemente l’altro, il prossimo.
Su questo prossimo, (l’impiegato delle poste, la persona accanto a noi sulla metro, il partner) probabilmente proiettiamo molte delle paure che nutriamo nei confronti del nostro straniero interiore, di tutte quelle parti estranee a noi stessi che stentiamo a riconoscere. 

Mi sembra quindi di poter dire che più siamo estranei a noi stessi più siamo chiusi e impauriti di fronte all’altro. 

Un processo di integrazione, di chiarificazione e autoconoscenza ci porta invece nella direzione opposta, dell’apertura, della disponibilità, dell’ascolto.
Prima di tutto dunque occorre familiarizzare e incontrare ciò che ci appare come potenzialmente estraneo in noi stessi. 

Potremmo riflettere anche sul cos’è che consideriamo noi, ciòè su ciò che abbiamo potere e controllo. Se c’è qualcosa che sfugge al mio controllo non sono io. 

Ma è davvero così? Posso dire di non essere anche il mio cuore, il mio intestino il mio respiro, o l’agitazione che talvolta provo nello stomaco, i processi metabolici non siano davvero miei? 

Non posso identificarmi con una volontà più ampia che opera a prescindere da una più ristretta che identifico come io?
Non posso rispecchiarmi nella vita intera che sfugge ai tentativi di controllo e manipolazione?

Il fiore nel campo mi è davvero più estraneo di un pensiero che attraversa la mente?
Non è che allora forse divento estraneo a me stesso quando mi identifico solo con una parte?

Per familiarizzare con lo straniero o con l’ estraneo occorre imparare a comunicare con la sua lingua, imparare il linguaggio dell’”altro” come estensione e arricchimento del mio.
Il linguaggio del corpo ad esempio, spesso lo abbiamo dimenticato, frainteso, spesso ci risulta incomprensibile, e anziché apprenderlo  reimpararlo umilmente lo mettiamo volentieri a tacere.

La diversità dei linguaggi, l’impossibilità di parlare una sola lingua costringe ad “imparare la lingua dell’altro” a tradurre continuamente, a cambiare punto di vista e prospettiva a rendere permeabili i confini senza cancellarli. 

Penso alla membrana cellulare come a metafora vivente di questo processo. La sua membrana è porosa e lascia passare il nutrimento necessario traducendolo in “se stessa”.

Così è ogni forma di nutrimento, così è il respiro.

La necessità di tradurre conduce all’apertura all’ altro alla necessità di esplorare più linguaggi in cui il reale si può esprimere e descrivere, abbandonando il mito di unica forma che racchiuda tutto. 

Non a caso i miti razzisti prevedono l’omogeneità, la riduzione ad uno della molteplicità. Questa riduzione avviene attraverso l’esclusione, la cancellazione, l’appiattimento.

Credo però che abbia comunque valore una prospettiva di unificazione su un livello chiaramente superiore, non di riduzione delle differenze, ma di integrazione su un livello superiore, e credo anche che in realtà quella lingua che integra tutto, senza cancellare nulla, esista e che sia il silenzio. 

Il silenzio come ascolto meditativo infatti lascia cantare ogni singola voce dell’esistenza in uno spazio illimitato che è in grado di accogliere ogni singola voce, includendola senza cancellarla.

Penetrando silenziosamente nel particolare, nel suono, nella vibrazione specifica di ogni angolo di vita, ci apriamo così umilmente all’universale al senza limiti, all’infinito.

Abbracciando nel silenzio quella che ci appare ad uno sguardo distratto e superficiale come estraneità e che eppure sentiamo profondamente nostra, aprendoci al mistero, apprendendo il linguaggio del silenzio, dell’ascolto e della ricettività,  creiamo uno spazio di avvicinamento e di intimità.

In quello spazio possiamo davvero essere intimi con la nostra presunta estraneità, incontrarla e riconoscerla, intimi con il processo stesso della vita che travalica il piccolo io, le nostre limitate identificazioni.
Iniziamo così  ad intravedere ed intuire l’unità che comprende e connette tutto.

Oltre il recinto c’è la vita. Cambiare si può

Cambiare è rischioso e comporta impegno e fatica.

Richiede di aprirsi al nuovo, di avventurarsi nello sconosciuto.

Non tutti sono disposti ad uscire da ciò che è familiare e rassicurante, dalla sfera delle abitudini acquisite.

Ci si avvicina alla possibilità del cambiamento spesso attraverso il dubbio, l’incertezza o la paura, o attraverso un “economia energetica” che lo valuta troppo dispendioso o faticoso, la nostra terribile finanziaria personale; la BCE che è dentro di noi.

Così molti permangono nella stagnazione del già noto.

E’ curioso notare invece come l’energia spesa in un cammino di crescita sia simile ad investimento molto produttivo: si ha un enorme ritorno in termini di vitalità, autostima, entusiasmo, potere personale, fiducia.

La fatica del cammino interiore è una fatica che nutre, e non svuota.
Mentre la “non-fatica” del non-cambiamento svuota e non nutre.

Così alcuni, la maggior parte a dire il vero, sono spinti ad intraprendere un percorso di cambiamento quando la fatica del rimanere nella condizione attuale diventa troppo alta e inizia a superare quella che si immagina debba venir spesa per avviare un processo di trasformazione.

Questo tipo di motivazione ad iniziare un cammino (che sia un percorso di counseling, arteterapia, una psicoterapia, oppure un cammino spirituale -meditativo, o altro) è a mio avviso di tipo “autoprotettivo”, è volto a tutelare se stessi dal peggio.
Si sceglie di cambiare perché si è quasi costretti, per non peggiorare, perché così non si può continuare.

Questa motivazione autoprotettiva, sebbene abbia il pregio della urgenza e della spinta della necessità, spesso tende ad indebolirsi lungo il percorso e tende ad esaurirsi facilmente non appena un adattamento accettabile viene raggiunto.
L’inerzia iniziale spesso si ripresenta giusto qualche passo più in là.

Oppure si può intraprendere un cammino perché si intuisce o si è sperimentata in qualche modo l’energia del cambiamento volontario, la fatica nutriente dell’impegno e della responsabilità, la freschezza rinnovante della disciplina interiore, il gusto dell’avventura dell’ignoto che ci riavvicina a noi stessi.

Questo cambiamento è volontario, proattivo e in un certo senso gratuito.

Nasce quando si riattiva in noi la “pulsione autorealizzativa”, la tendenza all’autocompimento, la spinta verso il pieno sviluppo della personalità umana, di cui parlano le tradizioni spirituali, la filosofia e la psicologia umanistica.

Anche questo cammino nasce da una sorta di disagio, di un sentore dell’indisponibilità interiore a lasciare tutto com’è, ma non tanto per una costrizione della sofferenza quanto più per una intuizione, una visione di una vita piena, di ricchezza esistenziale, di una felicità possibile.

Il cammino richiede impegno, ma come dicevamo, ci ripaga con una moneta di più alto valore, ci restituisce la verità di noi stessi, la nostra umanità e autenticità.
E non c’è sicurezza, agio o zona di confort che possa valere altrettanto.


Si comprende che si può essere di più e altro, che la crescita e lo sviluppo attraversano tutte le età, che si può amare, gioire e anche soffrire, di più e meglio, pienamente e in modi sempre nuovi, insomma che “oltre il recinto c’è la vita”, e quella vita è una sorgente ricca che si vuole assaporare, gustare onorare e celebrare.

Il vero cambiamento comunque non è diventare qualcos’altro, ma è tornare a se stessi, alla nostra essenza sacra e originaria, piuttosto che continuare a sfuggirvi.

ASCOLTARE E’ UN ATTO CREATIVO Mindfulness e Creatività

 

Ascoltare consapevolmente, implica abbandonare il già conosciuto, i territori già esplorati per intraprendere nuovi percorsi nuove vie, per questo è un atto profondamente creativo.

Nella pratica di mindfulness, l’ascolto è essenziale ma quali sono le qualità dell’ascolto consapevole?.

Per praticare davvero la consapevolezza, il nostro ascolto sarà profondamente diverso da un ascolto abituale, dal modo con il quale ci mettiamo solitamente in relazione con  noi stessi e con gli altri, un ascolto spesso superficiale, pieno di classificazioni concettuali, di giudizi, e molto condizionato dai “mi piace /non mi piace”.

Ascoltare senza giudizio richiede la capacità di non seguire la tendenza abituale che ci spinge ad etichettare e classificare rapidamente tutto ciò che sperimentiamo.

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Tre “doni” della mindfulness. Come la meditazione puo’ arricchire la tua vita

Attraverso la pratica della meditazione di consapevolezza o mindfulness, potrai sviluppare almeno , tre nuove potenzialità, tre veri e propri “doni” che possono arricchire decisamente la tua vita.

Queste potenzialità sono delle vere e proprie nuove prospettive,  tre punti di vista che, pienamente sviluppati, possono davvero cambiare il tuo modo di vedere e di fare esperienza della realtà.

Il titolo di questi tre doni è chiaramente metaforico, prendilo quindi “tra virgolette”, come evocazione di un esperienza interiore.

Il primo è

       “Vedere le cose dall’alto”

La tua prospettiva sulle cose sarà via via più ampia e più completa, come se salissi su una montagna e vedessi le cose dall’alto, vedi di più c’è più spazio e hai accesso ad una visione d’insieme

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Mindfulness in azione : Tre pratiche di consapevolezza con il respiro da applicare nella vita quotidiana

Oggi vorrei proporti tre pratiche da mettere in atto attraverso il respiro, per trovare la centratura e praticare la consapevolezza nel bel mezzo delle attività quotidiane.

Sono pratiche semplici ma allo stesso tempo molto potenti, se applicate ripetutamente e con passione, calore, “tapas”.

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Assenza di scopo e gentilezza, come coltivarli nella Mindfulness

 

E’ interessante notare quanto anche nelle nostre attività più semplici sia sempre presente l’idea di uno scopo di un fine che giustifichi quello che stiamo facendo; beviamo perché abbiamo sete o perché c’è una bevanda che ci piace, usciamo di casa perché abbiamo lo scopo di arrivare all’ edicola e via dicendo.

Ci sembra strano addirittura insensato immaginare una qualche forma di attività che sia senza  uno scopo preciso.

Infatti ci verrebbe subito da dire che se qualcosa non ha scopo allora è inutile, una perdita di tempo. E questo ha in un certo senso anche un fondamento di verità. (Anche se in realtà si tratterebbe più di una  perdita “del “tempo” che “di” tempo) Continua a leggere “Assenza di scopo e gentilezza, come coltivarli nella Mindfulness”

Equanimità, Indifferenza, Reattività: affinità e differenze

 

 

Uno degli equivoci che spesso mi capita di sentire quando si parla di equanimità, riguarda il confondere o l’ assimilare questa importante qualità con gli atteggiamenti dell’indifferenza e del distacco, con la freddezza e il disinteresse che sono invece cosa alquanto diversa.

Per chiarire meglio ho immaginato di distinguere “tre tipi di mente” che in realtà sono solo diverse dimensioni, differenti aspetti della mente piuttosto che vere e proprie menti distinte tra loro. Continua a leggere “Equanimità, Indifferenza, Reattività: affinità e differenze”

La pratica del lasciar andare, tra consapevolezza e “inquinanti”

Nella pratica della consapevolezza, ci alleniamo a lasciar andare, o meglio a smettere di afferrare le cose.

Il lasciar andare non è un qualcosa che facciamo ma piuttosto accade quando vediamo con chiarezza la sofferenza insita nell’afferrare, nell’aggrapparci, nel trattenere.

 Per questo bisogna diventare molto abili e bravi nel riconoscere gli inquinanti mentali (klesha).

Quando incontriamo e riconosciamo la presenza gli inquinanti nella nostra mente dovremmo paradossalmente essere molto felici! Continua a leggere “La pratica del lasciar andare, tra consapevolezza e “inquinanti””