Prima “sentire” poi “lasciar andare”

Negli insegnamenti spirituali ricorre spesso l’esortazione al “lasciar andare”, inteso come espressione pratica del non-attaccamento.

Molti, sia tra i miei allievi di yoga che tra i clienti nei percorsi di counseling, sono affascinati da questo insegnamento e allo stesso tempo lo temono o dichiarano molta difficoltà nel metterlo in pratica.

Mi rendo conto sempre di più di come in realtà spesso venga frainteso.

Ad esempio poco tempo fà una mia studentessa alla fine della classe di yoga-mindfulness mi dice che durante tutta la pratica ha trovato molta difficoltà nel lasciar andare una sensazione di costrizione nel petto dovuta ad un emozione di rabbia.
Rimango un po’ perplesso, ed esplorando insieme mi accorgo che ha confuso il “lasciar andare” con il respingere, il cercare di sbarazzarsi di qualcosa.

La sua fatica e il suo sforzo derivavano dal tentativo ricorrente durante tutta la pratica di mandar via quella sensazione spiacevole. Mentre cercava di sbarazzarsene pensava di star praticando il lasciar andare senza però riuscirci.

Credo che questo sia un errore molto comune in cui possono facilmente imbattersi anche  praticanti più esperti.

Si può confondere il lasciar andare, che è qualcosa che accade quando non c’è lo sforzo di trattenere un esperienza, come una mano che si apre quando smettiamo di contrarla, con lo sforzo attivo e generante tensione innescato dal cercare di liberarsi di qualcosa di spiacevole.

In questo modo inganniamo noi stessi usando il discorso spirituale; ci raccontiamo che ci stiamo impegnando a lasciar andare, quindi  pensiamo che la nostra intenzione sia corretta; siamo dei bravi praticanti che si sforzano giustamente, ..e più mi sforzo e più non ci riesco.. però almeno sono un praticante sempre più volenteroso..

Quando dici che lasciar andare è difficile, in molti casi non si tratta veramente di lasciar andare, ma è il tentativo di camuffare qualcosa di molto più basilare e allo stesso tempo sfuggente, e cioè l’avversione nei confronti dello spiacevole ed il tentativo di eliminarlo.

Ovviamente in questi casi non si può che inscenare una lotta che sicuramente rafforzerà il ciò di cui vogliamo liberarci

Questo modo di lasciar andare inoltre non funziona per altri due motivi:
primo perché da un lato non è un vero lasciar andare, e secondo perché si vuole lasciar andare prima di aver fatto un esperienza piena di quell’emozione, sensazione, sentimento, ecc..

(Se vuoi approfondire l’argomento, puoi trovare altri spunti sulla pratica del “lasciar andare” qui)

Quello che è necessario comprendere è che non possiamo lasciar andare qualcosa di cui non facciamo pienamente esperienza.

Non possiamo lasciare un luogo che non abbiamo attraversato.

Non possiamo lasciar andare qualcosa senza prima averlo sentito pienamente.

Quindi possiamo riassumere sinteticamente così la pratica corretta:

“Prima sentire, poi lasciar andare”.

Dove quel sentire non è un sentire fugace prima di scansare, ma qualcosa che può anche durare molto a lungo, significa immergersi pienamente nell’esperienza, anche se difficile o spiacevole, viverla pienamente, lasciarla entrare nella carne, lasciarla muovere espandersi al proprio interno, essere intimi con essa. 

Possiamo dire ancora meglio:
“prima sentire, poi sentire, poi sentire, poi ancora sentire, sentire, sentire……poi lasciar andare”


Arnoud Desjardin dice qualcosa di simile in “Aldilà dell’Io” quando afferma che il vero jnana yoga (lo yoga della conoscenza) consista sostanzialmente in questo: conoscere l’emozione direttamente.
Questa forma di conoscenza per intimità e adesione diretta, è di gran lunga più importante della conoscenza dei testi sacri e degli insegnamenti filosofici.
Conoscenza diretta dell’esperienza in atto senza filtri concettuali o scappatoie spirituali.

Solo dopo questo “conoscere” può avvenire il lasciar andare, anzi probabilmente avverrà quasi naturalmente senza sforzo, come processo naturale di estinzione dei fenomeni.

Prima sentire, sentire a lungo e in profondità. Divenire intimi con l’esperienza in atto.
Solo dopo, ma molto dopo, lasciar andare.

Yoga & Mindfulness: Due sentieri con molto punti di incontro

“Come il grande oceano ha un unico sapore, quello del sale, così il Dharma ha un unico sapore, quello della libertà;” (Buddha)

Nel corso di Yoga & Mindfulness vengono utilizzate insieme in modo integrato e sinergico, pratiche di mindfulness ed esercizi di ’hatha yoga, vediamo come e perché.

La mindfulness riguarda fondamentalmente lo sviluppo e la coltivazione di un’attitudine interiore, una facoltà della mente di cui tutti siamo dotati.

Si tratta fondamentalmente della capacità di conoscere senza giudicare.

E’ la capacità di sostenere l’attenzione su ciò che si presenta all’esperienza, momento per momento, in modo intenzionale e privo di giudizi, valutazioni e comparazioni.

Come sappiamo però, purtroppo la nostra mente funziona spesso in tutt’altro modo: la nostra l’attenzione è spesso instabile, dipendente dalle circostanze, si sposta rapidamente avanti e indietro nel tempo.
La nostra mente discorsiva è in perenne movimento, le nostre proiezioni e anticipazioni si sovrappongono costantemente alla realtà generandone un esperienza distorta, parziale, deformata, e spesso inaffidabile, in quanto governata dalle reazioni automatiche che si innescano al momento.

Questo è esattamente uno dei fattori principali che il Buddha individuava alla radice della sofferenza umana e dell’insoddisfazione generalizzata di cui ognuno di noi ha fatto almeno una volta esperienza.

Il retroterra  principale della mindfulness sono infatti gli insegnamenti del Buddha relativi alla natura della sofferenza  e alle pratiche che ne consentono il superamento.
Non è tanto l’aspetto religioso-rituale che qui interessa del buddhismo quanto la sua “psicologia spirituale” che in sintesi è un cammino in grado di accompagnarci alla libertà dalla sofferenza, e quindi ad una felicità profonda e ad un senso compiuto dell’esistenza.

La mindfulness è quindi sia un insieme di pratiche meditative, che un atteggiamento, una disposizione interiore che si può applicare a qualunque campo della vita.

Questi due momenti sono sempre tenuti insieme nelle nostre lezioni: ciò a cui miriamo soprattutto è la disposizione interna ad un ascolto attento e ricettivo, di ciò che accade al nostro interno, e fuori di noi.

Naturalmente questo aspetto è presente in altre altre tradizioni sapienziali, così come ovviamente nello yoga. Quello che qui si intende fare è dargli un posto di particolare rilievo ed importanza all’interno della pratica.

In questo corso si dà quindi la priorità all’esercitarsi nel coltivare l’attitudine ad aprirsi all’esperienza in atto senza frapporre i nostri giudizi condizionati tra noi ed essa.
O meglio, si impara progressivamente a riconoscere i nostri filtri condizionati e a farne progressivamente a meno, arricchendo la nostra esperienza e la nostra libertà.

Ci si apre così, ad uno sguardo rinnovato nei confronti della realtà ed anche verso noi stessi.

Ciò che soprattutto mira a sviluppare la pratica di yoga-mindfulness è la consapevolezza-saggezza (sati-sampajanna): cioè il divenire sempre più attenti e presenti a tutto ciò che nella nostra vita genera significato, soddisfazione autentica,  felicità, e ad accorgerci sempre meglio di come le nostre azioni generate sull’onda delle abitudini acquisite, possano invece portare a disagio sofferenza, stagnazione, insoddisfazione.
 
Più siamo consapevoli dei meccanismi che generano la sofferenza e più siamo in grado di scegliere liberamente se assecondarli o meno.

Lo yoga-mindfulness è chiaramente un cammino di autoconoscenza e progressivamente di autoliberazione.

Questa consapevolezza si coltiva in diversi modi, ma in particolare attraverso l’attenzione e l’ascolto del corpo.
E’ qui che la mindfulness e il suo retroterra si sposano magistralmente con la pratica dell’hatha yoga che consente di risvegliare la nostra coscienza del corpo, ci richiama a sentirlo e ad abitarlo consapevolmente.

Le posizioni ed i movimenti dello yoga, le pratiche di espansione del respiro, attivano una rinnovata consapevolezza del nostro corpo e rendono la nostra mente più chiara e sveglia, favoriscono lo stabilizzarsi dell’attenzione e risvegliano i nostri sensi.

Meno il corpo è teso, meno è rigido, più si libera energia vitale che diventa disponibile per l’attenzione la consapevolezza e la gioia spontanea.
La consapevolezza, l’ascolto interessato, la capacità di vivere pienamente il qui e ora, sono infatti strettamente legati all’energia disponibile e correttamente circolante nel sistema corpo-mente.
Le pratiche yogiche quindi vanno a liberare e far circolare l’energia vitale che normalmente viene intrappolata in tensioni corporee, disallineamenti posturali, limitazione del respiro, emozioni non consapevolizzate, rimuginazione mentale.

Nello yoga-mindfulness, tutte le pratiche corporee hanno principalmente lo scopo di risvegliare la nostra consapevolezza e di portarla nel qui e ora, la dove la nostra vita sta realmente accadendo.

L’ascolto “religioso” del corpo, la connessione con le sensazioni che accadono momento per momento sono elementi costanti ed essenziali nella nostra pratica.

E’ il corpo stesso, nei suoi movimenti, così come nelle posizioni o nel susseguirsi degli atti respiratori ad essere quel luogo “sacro” e allo stesso tempo concretamente vivo e dinamico, dove la mente può stabilizzarsi, sincronizzarsi con i ritmi biologici e trovare dimora, dove  assaporare l’unicità dell’istante.

Le pratiche di mindfulness più specificamente meditative sono molto semplici e si basano principalmente sul portare l’attenzione al respiro, mantenercela e riportarcela con un movimento intenzionale e delicato allo stesso tempo, qualcosa di simile ad una danza.

Esistono poi una serie di pratiche cosiddette “informali” che si rivelano molto utili a portare nella vita quelle attitudini che vengono esercitate nella lezione, come la meditazione camminata o la meditazione del cibo e delle azioni quotidiane. Queste pratiche sono anche un ricco terreno di esplorazione di se stessi e delle proprie dinamiche, e spesso occasione di fertile condivisione nelle lezioni.

Tutto questo viene proposto con una metodologia progressiva e gentile, rispettosa dei tempi, delle modalità e delle aspirazioni di ciascun praticante.

La pratica di yoga- mindfulness ci conduce quindi verso la dimensione dell’essere, intrisa di libertà e appagamento, in alternativa alla dimensione del fare, in cui dominano automatismi e insoddisfazione, nella quale siamo spesso intrappolati.

Il nostro fare nella pratica è funzionale all’essere e serve unicamente a nutrirlo.

ArtCounseling. L’arte al servizio della crescita personale

La centralità del fare artistico-creativo per facilitare il cambiamento personale, e’ il tratto distintivo del counseling espressivo o Artcounseling.

Per counseling espressivo si intende secondo la definizione di E.Giusti  e I. Piombo:

“quel particolare approccio che usa le immagini, l’immaginario ed il fare artistico creativo.”

L’artcounselor abbina le sue competenze relazionali con la conoscenza del processo creativo e delle sue fasi.
Possiamo considerare il fare creativo come esso stesso una risorsa relazionale, e che la competenza relazionale, cioè il saper essere in relazione con l’altro in modo autentico fruttuoso ed evolutivo, non può prescindere dalla creatività.

La relazione di aiuto è essa stessa in un certo senso arte.
 


Quando parliamo di counseling artistico, ciò riguarda non solo utilizzo dell’arte in senso tecnico, ma la centralità dell’elemento creativo, in tutte le sue molteplici sfaccettature, nella relazione di aiuto.

Ci ricorda infatti  James Hilmann che:

“la psiche emerge quando siamo immersi nell’immagine, o ci perdiamo nei suoi labirinti”.

Un elemento a cui viene data grande centralità è sicuramente l’immagine e l’immaginario.

Le immagini possono avere molteplici origini e natura: possono provenire da suggestioni esterne, prese dall’ambiente, oppure generate dal cliente sotto forma di disegni, dipinti o scarabocchi, o anche immagini formulate verbalmente sotto forma di metafore, o ancora immagini corporee come gesti, movimenti o danze, oppure immagini interne suscitate ad esempio dalla fruizione di forme di arte e manufatti artistici.

Il contatto con le nostre parti più profonde e animiche dunque è particolarmente facilitato dall immagine che essendo più antica e primordiale della parola, risuona più facilmente con il linguaggio dell’anima.
Infatti, le parole che dispongono di più potere sono proprio quelle che hanno la capacità di evocare immagini significative.

Nel counseling espressivo come nell’arteterapia, il lavoro è orientato in direzione dell’unità e dell’integrità della persona, è fondamentale perciò che il counselor sia

“in grado di mettere in comunicazione parole ed immagini, cosi che il cliente veda ciò che produce come qualcosa di profondamente suo, di interiore , che lo aiuta a entrare in relazione con l’esterno, come una finestra sul mondo” . (Giusti, Piombo)

E’ proprio su questo gioco interno-esterno che si gioca gran parte dell’importanza e dell’efficacia del mezzo espressivo; consente infatti di tirare fuori, di esprimere qualcosa che accade dentro, attraverso un processo delicato e gentile, metaforico e analogico, e allo stesso tempo potente e denso di significato.

Questo spazio che è sia interno che esterno è qualcosa di simile a quello che Winnicot  ha chiamato “spazio transizionale”, ed è sede di esplorazione, gioco creatività e scoperta di sé.

La differenza fondamentale tra il processo artistico tout-court e l’artcounseling, è l’avvenire di questo all’interno di una relazione specifica e di un setting che costituiscono il contesto dinamico, la cornice di significato che è parte integrante nella costruzione del senso del processo e del prodotto artistico.

“La parola arte va intesa come potenzialità che ognuno ha di elaborare artisticamente il proprio vissuto e di trasmetterlo creativamente ad altri per facilitare uno stato di benessere, di esistere bene.” (Giusti, Piombo)

Il processo in cui accade l’espressione artistica è dunque fondamentale, ed è fondamentale il come ci si relaziona all’opera del cliente.

Il counselor sarà totalmente rispettoso del prodotto del cliente, lo accoglierà con calore e conferma, il cliente potrà così sentirsi accettato e al sicuro e saprà di potersi fidare, e dunque esprimersi liberamente.

L’esplorazione del prodotto artistico è un momento molto importante e delicato, l’artcounselor in quel momento è un po’ come il genitore (affettivo-positivo) che osserva l’opera del bambino-cliente.

Attraverso il fare artistico è più facile bypassare difese e meccanismi di censura, giacché sembra che in fondo si tratti “soltanto” di un disegno o di un manufatto, di un immagine presa da una rivista, o della scelta un colore.

Parlare del colore, delle forme, dei materiali scelti è una modalità morbida e metaforica per parlare del mondo interno del cliente senza chiamarlo direttamente in causa, mettendo dunque il cliente in grado di abbassare le proprie difese e favorire il processo di autoconoscimento.

In questo modo, attraverso l’accoglienza empatica del lavoro del cliente, si possono costruire la sicurezza e la fiducia che sono alla base dell’alleanza operativa. L’accoglienza incondizionata del processo creativo del cliente rimanda immediatamente, per analogia, all’accettazione della sua persona in quanto tale, e va di pari passo con essa.


Il cliente inoltre può prendere una certa distanza dal suo prodotto, fintanto che riesce a sentirsi a suo agio, nella relazione con esso (osservandolo, descrivendolo) può cioè calibrare la distanza che mette tra sé e quel qualcosa che è emerso dalla sua esperienza, ed ora gli appare in una forma oggettivata.
Oggettivata, qui va inteso non tanto nel senso negativo di reificata e irrigidita, ma al contrario: l’oggettivazione la rende osservabile, conoscibile, manipolabile e soprattutto trasformabile.

Il counselor comunque incoraggerà il cliente a riconoscere come suo il prodotto creativo aiutandolo a costruire dei ponti fra mondo interno e la sua espressione esterna.
Altri ponti interessanti possono essere costruiti usando il prodotto artistico come metafora per leggere con un nuovo sguardo, eventi e situazioni nella vita reale del cliente.

L’uso dell’espressione artistica nel processo di counseling, ha inoltre la finalità di promuovere l’autoconsapevolezza del cliente e la crescita personale, sottolineando  la centralità della creatività come una risorsa e cruciale da promuovere e risvegliare nella persona.


Perché si possa parlare di una vera crescita e una vera consapevolezza, non si può prescindere da un approccio creativo e aperto alla vita.
Per vivere autenticamente ci è richiesta la capacità di poter abbandonare territori già frequentati, i percorsi noti e stabiliti, e di emanciparsi da modi di essere tendenzialmente automatici e dettati dal confort.

Le Emozioni “Parassite”: conoscerle, riconoscerle, trasformarle..

Nell’ Analisi transazionale, si parla di
“emozioni parassite”, come di quelle “emozioni familiari apprese e incoraggiate nell’infanzia, vissute in diverse situazioni di stress e inadatte quale mezzo di risoluzione dei problemi.”

Sono dunque emozioni che abbiamo imparato a mettere in atto nei nostri contesti familiari, spesso perché esplicitamente incoraggiate o perché le sole consentite a scapito di altre invece non accettate o scoraggiate. Penso ad  esempio che fino a pochi anni fa non era raro purtroppo sentire un genitore dire al proprio figlio maschio “..non piangere i maschietti non piangono, non sei mica una femminuccia!”

In alcuni ambienti familiari può essere una sorta di tabù manifestare alcune emozioni mentre altre vengono incoraggiate e promosse. Ogni famiglia ha una sua gamma di emozioni permesse e consentite, ed una gamma di emozioni che invece vengono inibite.

Un modo in cui apprendiamo le nostre competenze emotive, quindi è tendenzialmente inconscio, per imitazione dei nostri genitori e di altre figure significative, vedendo e risuonando con il loro stile emotivo, il modo in cui cioè vivono esprimono e comunicano il proprio mondo emotivo.

Io ricordo ad esempio l’imbarazzo e il timore di mio padre nelle situazioni sociali, anche quelle molto semplici come l’interazione con un barista. Quella percezione mi ha molto influenzato trasmettendomi innanzitutto confusione e una sorta di sfiducia nelle mie percezioni, nel mio sistema di valutazione, perché in qualche modo mi veniva segnalato che una situazione, che io percepivo del tutto innocua, fosse invece, in un modo che non riuscivo a comprendere, pericolosa, minacciosa, o comunque fonte di stress e tensione.
Allo stesso tempo è difficile sentirsi protetti se percepiamo paura proprio nella figura che dovrebbe proteggerci e accudirci, di conseguenza finivo per provare paura anche io e senza comprenderne il motivo.

Come facciamo a riconoscere un’emozione parassita da una funzionale?

C’è una considerazione molto semplice che possiamo fare:

 Le emozioni parassite sono inadatte a risolvere efficacemente un problema o una sfida che incontriamo.

Molto spesso sono loro stesse a creare un problema.
Se sto camminando in un bosco e improvvisamente avverto un rumore sinistro dietro un cespuglio che non so decifrare, la paura che provo fa allertare il mio sistema nervoso, muscolare posturale e respiratorio, acutizza le mie percezioni e mi dispone ad una reazione di lotta o fuga. E’ un emozione del tutto funzionale alla situazione, se devo scappare predispone efficacemente il sistema motorio alla reazione di fuga.
Provare una paura che arriva a bloccarci invece, ad esempio quando vogliamo esprimere un nostro bisogno al partner o fare una richiesta al nostro capo, non ci aiuta ad ottenere il nostro scopo che è la comunicazione e la soddisfazione dei un bisogno.

 Quando proviamo una qualsiasi emozione possiamo chiederci se sia effettivamente adeguata e funzionale al qui e ora della situazione. Se non lo è, secondo l’AT, stiamo nel copione, cioè stiamo seguendo un “piano di vita che si basa su di una decisione presa durante l’infanzia, rinforzata dai genitori, giustificata dagli avvenimenti successivi e che culmina in una scelta decisiva” (E. Berne)

La domanda che apre all’esperienza e nutre la consapevolezza è questa:

“Quest’emozione è veramente connessa con la situazione presente o proviene da qualche condizionamento del passato?”



Provate a chiedervelo quando intuite che quell’emozione che provate ha qualcosa che non vi torna, vi sembra forse un p troppo intensa o inadatta o semplicemente un po’ strana, insomma richiama la vostra attenzione in qualche modo, o verso la quale vi sentite a disagio.

Per questo, l’emozione non si rivela utile e funzionale al qui e ora, perché non nasce realmente nel qui e ora, ma proviene da una risonanza del passato risvegliata dalla situazione attuale e rimette in atto un’ antica strategia adattiva che diventa però oggi una costrizione, una sorta di obbligo a rivivere certe situazioni.

 Alcuni segnali corporei dell’emozione parassita sono  quelli di essere o iperattivanti o iperbloccanti; si ha una percezione che l’ energia che non circoli liberamente, o in eccesso o troppo in ribasso, depotenzianti o ansiogene ,  inoltre durano più a lungo, lasciano tracce per un periodo più lungo, nonché spesso, scie di pensieri ridondanti.

In un percorso di counseling espressivo e corporeo, possiamo apprendere nuove strategie per dare forma creativamente alle nostre emozioni, a riconoscerne i segnali corporei, imparare a gestirle e a trasformarle anche attraverso il movimento creativo ed il gesto espressivo.
Possiamo fare in modo che da parassite, che succhiano la nostra energia, possano diventare nostre alleate ed utili amiche.

STRANIERI A NOI STESSI. Il viaggio interiore, dall’Estraneità all’Intimità

Siamo spesso stranieri a noi stessi.
Lo siamo in vario modo, a cominciare dal corpo, vissuto molte volte come un oggetto, come qualcosa che “abbiamo” e che può funzionare bene o male, che crea fastidio oppure sta bene, che va allenato.
Un oggetto oppure un mezzo per fare o per apparire, quasi mai vissuto e pensato come “me stesso”.

Perché è vero da un lato che il corpo non ci appartiene interamente, che non lo possiamo controllare del tutto, per quanto bene viviamo e curiamo la salute, non possiamo evitare la malattia, e un giorno, la morte.

O più semplicemente spesso non controlliamo ciò che appare nel corpo sotto forma di pensieri ed emozioni, stati affettivi, che appaiono e scompaiono senza chiedere il nostro parere in proposito. 

Oppure pensiamo ai processi fisiologici naturali che accadono indipendentemente dalla volontà, come il respiro, la digestione il battito cardiaco. 


Pensiamo al battito del cuore che  non possiamo controllare volontariamente (forse solo alcuni yogi ci riescono) e che è paradossalmente proprio l’espressione centrale della vita in noi.

Dentro di noi il cuore pulsa spinge sostiene la vita e questo qualcosa di così essenziale non dipende da noi, non è sotto il nostro controllo.
Per dirlo con le parole di Massimo Recalcati, sperimentiamo che “la vita travalica la vita”. 

Così è anche il nostro nome, così intimo e familiare, eppure ci viene dato da altri, ci viene “imposto”, quindi se da un lato ci è estraneo, dall’altro in esso ci riconosciamo profondamente ed intimamente. 

Le parti di noi che non riconosciamo, ci sono estranee, le emozioni che non accettiamo, sono lo straniero in noi. Straniero che parla altre lingue, altre grammatiche, che abbiamo disimparato o mai appreso, e che è necessario tornare ad apprendere, tradurre per assimilarle e integrarle.
A volte queste parti sono state completamente ridotte al silenzio e quindi diventate ancora più pienamente estranee, forse visibili solo attraverso la “proiezione”. 

Sappiamo bene da tutte le tematiche relative all’ombra, che se queste parti restano non viste, non ascoltate, non riconosciute, diventeranno sempre più potenti  ingigantiscono involvendosi, agendo al di sotto della coscienza condizionandoci fortemente.


Dunque è a partire da questa estraneità verso noi stessi che può partire un interrogarsi sulla paura dell’altro, non necessariamente lo straniero ufficialmente riconosciuto come tale, ma anche semplicemente l’altro, il prossimo.
Su questo prossimo, (l’impiegato delle poste, la persona accanto a noi sulla metro, il partner) probabilmente proiettiamo molte delle paure che nutriamo nei confronti del nostro straniero interiore, di tutte quelle parti estranee a noi stessi che stentiamo a riconoscere. 

Mi sembra quindi di poter dire che più siamo estranei a noi stessi più siamo chiusi e impauriti di fronte all’altro. 

Un processo di integrazione, di chiarificazione e autoconoscenza ci porta invece nella direzione opposta, dell’apertura, della disponibilità, dell’ascolto.
Prima di tutto dunque occorre familiarizzare e incontrare ciò che ci appare come potenzialmente estraneo in noi stessi. 

Potremmo riflettere anche sul cos’è che consideriamo noi, ciòè su ciò che abbiamo potere e controllo. Se c’è qualcosa che sfugge al mio controllo non sono io. 

Ma è davvero così? Posso dire di non essere anche il mio cuore, il mio intestino il mio respiro, o l’agitazione che talvolta provo nello stomaco, i processi metabolici non siano davvero miei? 

Non posso identificarmi con una volontà più ampia che opera a prescindere da una più ristretta che identifico come io?
Non posso rispecchiarmi nella vita intera che sfugge ai tentativi di controllo e manipolazione?

Il fiore nel campo mi è davvero più estraneo di un pensiero che attraversa la mente?
Non è che allora forse divento estraneo a me stesso quando mi identifico solo con una parte?

Per familiarizzare con lo straniero o con l’ estraneo occorre imparare a comunicare con la sua lingua, imparare il linguaggio dell’”altro” come estensione e arricchimento del mio.
Il linguaggio del corpo ad esempio, spesso lo abbiamo dimenticato, frainteso, spesso ci risulta incomprensibile, e anziché apprenderlo  reimpararlo umilmente lo mettiamo volentieri a tacere.

La diversità dei linguaggi, l’impossibilità di parlare una sola lingua costringe ad “imparare la lingua dell’altro” a tradurre continuamente, a cambiare punto di vista e prospettiva a rendere permeabili i confini senza cancellarli. 

Penso alla membrana cellulare come a metafora vivente di questo processo. La sua membrana è porosa e lascia passare il nutrimento necessario traducendolo in “se stessa”.

Così è ogni forma di nutrimento, così è il respiro.

La necessità di tradurre conduce all’apertura all’ altro alla necessità di esplorare più linguaggi in cui il reale si può esprimere e descrivere, abbandonando il mito di unica forma che racchiuda tutto. 

Non a caso i miti razzisti prevedono l’omogeneità, la riduzione ad uno della molteplicità. Questa riduzione avviene attraverso l’esclusione, la cancellazione, l’appiattimento.

Credo però che abbia comunque valore una prospettiva di unificazione su un livello chiaramente superiore, non di riduzione delle differenze, ma di integrazione su un livello superiore, e credo anche che in realtà quella lingua che integra tutto, senza cancellare nulla, esista e che sia il silenzio. 

Il silenzio come ascolto meditativo infatti lascia cantare ogni singola voce dell’esistenza in uno spazio illimitato che è in grado di accogliere ogni singola voce, includendola senza cancellarla.

Penetrando silenziosamente nel particolare, nel suono, nella vibrazione specifica di ogni angolo di vita, ci apriamo così umilmente all’universale al senza limiti, all’infinito.

Abbracciando nel silenzio quella che ci appare ad uno sguardo distratto e superficiale come estraneità e che eppure sentiamo profondamente nostra, aprendoci al mistero, apprendendo il linguaggio del silenzio, dell’ascolto e della ricettività,  creiamo uno spazio di avvicinamento e di intimità.

In quello spazio possiamo davvero essere intimi con la nostra presunta estraneità, incontrarla e riconoscerla, intimi con il processo stesso della vita che travalica il piccolo io, le nostre limitate identificazioni.
Iniziamo così  ad intravedere ed intuire l’unità che comprende e connette tutto.

Essere soli. Esplorare il vuoto interiore

Sentirsi interiormente soli, anche se si hanno molte relazioni sociali, sembra essere una condizione sempre più diffusa.

Vorrei portare l’attenzione su un tipo speciale di solitudine: il sentirsi soli rispetto a se stessi.

Questa nasce a mio avviso quando si è rinunciato a parti importanti del proprio sé, si è mutilata la propria personalità in funzione di un io che ha privilegiato l’adattamento alle richieste dell’ambiente.

In questo caso è la relazione con se stessi a presentare delle importanti carenze

Si sperimenta un senso di impoverimento del proprio sé, con il quale non si riesce a stare in contatto in modo soddisfacente, né a comunicare autenticamente.

Avendo abbandonato alcune parti di sé, (il bambino libero, la parte creativa, il poter sentire alcune emozioni, le aspirazioni profonde) ci rende più soli internamente, più poveri.

Questo processo mina alle fondamenta anche la fiducia in noi stessi, perché in un certo senso ci siamo abbandonati, o ci sentiamo come se in qualche modo ci fossimo traditi da soli.

Il nostro Sé profondo o anima se vogliamo, vive come tradimento la sua nemesi, il fatto che la personalità lo dimentichi o faccia finta che non esista, vivendo scollegata da lui.

E la personalità così costruita in modo carente sente la mancanza del legame coni qualcosa di essenziale con una fonte di nutrimento originaria da cui attingere e da cui prendere forma.

E’ come sentire che in qualche modo non si può fare completo affidamento su di sé perché si sono costruiti dei vuoti, delle carenze.
Comunicare con sé stessi diventa un’esperienza dolorosa, come cercare di entrare in contatto con un assenza con un vuoto interiore, con la traccia di qualcosa che è stato.

Questo tipo di solitudine è molto difficile da tollerare perché la persona non riesce a stare con se stessa ad incontrarsi senza sentire disagio vuoto, ostilità incompletezza. Difficilmente chi la sperimenta diventerà un meditante.

Un meccanismo di fuga infatti consiste proprio nel ricercare ossessivamente la compagnia dell’esterno, l’appoggiarsi agli altri che sfocia spesso nella dipendenza emotiva.

Queste relazioni però difficilmente si rivelano appaganti in quanto fondamentalmente inautentiche, in quanto ciò che manca nel sé mancherà anche nella relazione o verrà ricercato compulsivamente nell’altro.

L’uscita da questo stato implica un lavoro su se stessi teso a recuperare e a rivitalizzare gli aspetti che al proprio interno si sono atrofizzati, attraverso la riscoperta della creatività, il gioco, la meditazione, la comunicazione autentica, la relazione, la bellezza.

Allo stesso tempo è necessario entrare in contatto con questo senso di vuoto interno, anche se doloroso, smettere di evitarlo, e disporsi ad attraversarlo.

Le pratiche intuitive e simboliche del counseling espressivo, il risveglio del corpo attraverso le diverse pratiche di movimento corporeo possono costituire dei validi percorsi per ritrovare parti di noi perdute sopite o dimenticate.

Si può riscoprire una ricchezza interiore di cui non si era consapevoli, e iniziare anche a percepire e ricercare la solitudine come un’opportunità di ascolto, autoconoscenza e crescita.

Da questo processo, da questa maggiore pienezza interiore, anche le relazioni non possono che risultare arricchite e rivitalizzate.

il Podcast “Counseling per vivere meglio” ascolta i primi due episodi!

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