La pratica del lasciar andare, tra consapevolezza e “inquinanti”

Nella pratica della consapevolezza, ci alleniamo a lasciar andare, o meglio a smettere di afferrare le cose.

Il lasciar andare non è un qualcosa che facciamo ma piuttosto accade quando vediamo con chiarezza la sofferenza insita nell’afferrare, nell’aggrapparci, nel trattenere.

 Per questo bisogna diventare molto abili e bravi nel riconoscere gli inquinanti mentali (klesha).

Quando incontriamo e riconosciamo la presenza gli inquinanti nella nostra mente dovremmo paradossalmente essere molto felici!

Perchè?
Perchè li abbiamo riconosciuti, e quindi ne siamo meno schiavi e poi abbiamo l’occasione di vederli all’ opera e di imparare profondamente da questo vedere con chiarezza il odo in cui funzionano.

 Il problema nasce dal fatto che non ci piace vederli in noi (pensiamo che dovremmo essere migliori e non averne), e  di solito tutto ciò è un esperienza abbastanza spiacevole; il dukka (sofferenza, disagio, insoddisfazione) è sempre insito nella presenza degli inquinanti e noi non lo vorremmo sperimentare.

In questo rifiuto dello spiacevole possiamo già avvisare la presenza dell’inquinante dell’avversione.

Riconoscere la presenza degli inquinanti (attaccamento, avversione, confusione) è di vitale importanza, per poterne essere via via sempre meno condizionati.

Un metodo utile è quello di applicare semplicemente la nuda etichetta: ”ah..ecco l’avversione”.
Questa modalità di riconoscimento, non-giudicante ci aiuta nel evitare di farne subito un nostro possedimento, una qualità  che possediamo o di cui dobbiamo disfarci (se non è nostro perché dovremmo disfarcene?)

Bisognerebbe  evitare di aggiungere qualunque altra considerazione che non sia il semplice notare la presenza dell’inquinante, associazioni, catene di pensiero ecc..tipo “ecco sono il solito fallimento, sono una persona sbagliata, non sono capace a meditare”, ecc ecc..

Semplice riconoscimento.

In questo semplice riconoscere potremmo trovare un senso di spaziosità, di apertura:
 se davvero non aggiungiamo nulla, ecco che l’inquinante o anche un semplice pensiero accade in uno spazio molto più ampio in cui c’è anche una certa  calma, un inizio di pace un certo poter stare, saper accogliere.

Questo è molto diverso dal sperimentare il pensiero o l’emozione in uno spazio molto più angusto ristretto. E’ come se fossimo in contatto con un cibo avariato davanti a noi, un conto è un piatto di cibo avariato in uno stanzino chiuso senza finestre, altra cosa è avercelo a qualche metro di distanza in un prato in una bella giornata di primavera,.. una bella differenza no?

Per questo è di fondamentale importanza, il clima, il modo, l’atteggiamento con il quale incontriamo i contenuti della nostra mente-cuore.

Se c’è agitazione, irrequietezza e sappiamo accostarci ad essa con un tocco delicato gentile, senza disprezzarla o disprezzarci perché non dovremmo averla o  dovremmo essere migliori, ci sarà una bella differenza rispetto lo sperimentare solo l’agitazione, solo la rabbia, solo il risentimento, lasciandogli tutto lo spazio.

Dovremmo come sottolinea spesso Corrado Pensa, cominciare ad assaporare la differenza che c’è nello sperimentare ad esempio, la rabbia mescolata con la nostra reazione ad essa oppure la rabbia insieme alla consapevolezza, accompagnata dalla consapevolezza, cioè inserita in un contesto accettante e non giudicante.

Quello che andiamo a seminare sarà un seme molto positivo molto fecondo, perché andremo a nutrire la gentilezza la capacità di accogliere e ad indebolire l’inquinante, andremo inoltre anche a nutrire anche la fiducia in noi stessi e nella pratica.

Una risoluzione, un “aditthana” che può sostenerci in questa direzione può essere formulata più o meno così:

“Che io possa incontrare sempre più spesso gli inquinanti  e gli stati difficili della mente,  con un senso di curiosità, apertura e gentilezza. Che io possa imparare a riconoscerli senza alimentarli, allenandomi a nutrire sempre più spesso le qualità salutari del cuore; gentilezza, saggezza, compassione, gioia, equanimità.”

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