Yoga & Mindfulness: Due sentieri con molto punti di incontro

“Come il grande oceano ha un unico sapore, quello del sale, così il Dharma ha un unico sapore, quello della libertà;” (Buddha)

Nel corso di Yoga & Mindfulness vengono utilizzate insieme in modo integrato e sinergico, pratiche di mindfulness ed esercizi di ’hatha yoga, vediamo come e perché.

La mindfulness riguarda fondamentalmente lo sviluppo e la coltivazione di un’attitudine interiore, una facoltà della mente di cui tutti siamo dotati.

Si tratta fondamentalmente della capacità di conoscere senza giudicare.

E’ la capacità di sostenere l’attenzione su ciò che si presenta all’esperienza, momento per momento, in modo intenzionale e privo di giudizi, valutazioni e comparazioni.

Come sappiamo però, purtroppo la nostra mente funziona spesso in tutt’altro modo: la nostra l’attenzione è spesso instabile, dipendente dalle circostanze, si sposta rapidamente avanti e indietro nel tempo.
La nostra mente discorsiva è in perenne movimento, le nostre proiezioni e anticipazioni si sovrappongono costantemente alla realtà generandone un esperienza distorta, parziale, deformata, e spesso inaffidabile, in quanto governata dalle reazioni automatiche che si innescano al momento.

Questo è esattamente uno dei fattori principali che il Buddha individuava alla radice della sofferenza umana e dell’insoddisfazione generalizzata di cui ognuno di noi ha fatto almeno una volta esperienza.

Il retroterra  principale della mindfulness sono infatti gli insegnamenti del Buddha relativi alla natura della sofferenza  e alle pratiche che ne consentono il superamento.
Non è tanto l’aspetto religioso-rituale che qui interessa del buddhismo quanto la sua “psicologia spirituale” che in sintesi è un cammino in grado di accompagnarci alla libertà dalla sofferenza, e quindi ad una felicità profonda e ad un senso compiuto dell’esistenza.

La mindfulness è quindi sia un insieme di pratiche meditative, che un atteggiamento, una disposizione interiore che si può applicare a qualunque campo della vita.

Questi due momenti sono sempre tenuti insieme nelle nostre lezioni: ciò a cui miriamo soprattutto è la disposizione interna ad un ascolto attento e ricettivo, di ciò che accade al nostro interno, e fuori di noi.

Naturalmente questo aspetto è presente in altre altre tradizioni sapienziali, così come ovviamente nello yoga. Quello che qui si intende fare è dargli un posto di particolare rilievo ed importanza all’interno della pratica.

In questo corso si dà quindi la priorità all’esercitarsi nel coltivare l’attitudine ad aprirsi all’esperienza in atto senza frapporre i nostri giudizi condizionati tra noi ed essa.
O meglio, si impara progressivamente a riconoscere i nostri filtri condizionati e a farne progressivamente a meno, arricchendo la nostra esperienza e la nostra libertà.

Ci si apre così, ad uno sguardo rinnovato nei confronti della realtà ed anche verso noi stessi.

Ciò che soprattutto mira a sviluppare la pratica di yoga-mindfulness è la consapevolezza-saggezza (sati-sampajanna): cioè il divenire sempre più attenti e presenti a tutto ciò che nella nostra vita genera significato, soddisfazione autentica,  felicità, e ad accorgerci sempre meglio di come le nostre azioni generate sull’onda delle abitudini acquisite, possano invece portare a disagio sofferenza, stagnazione, insoddisfazione.
 
Più siamo consapevoli dei meccanismi che generano la sofferenza e più siamo in grado di scegliere liberamente se assecondarli o meno.

Lo yoga-mindfulness è chiaramente un cammino di autoconoscenza e progressivamente di autoliberazione.

Questa consapevolezza si coltiva in diversi modi, ma in particolare attraverso l’attenzione e l’ascolto del corpo.
E’ qui che la mindfulness e il suo retroterra si sposano magistralmente con la pratica dell’hatha yoga che consente di risvegliare la nostra coscienza del corpo, ci richiama a sentirlo e ad abitarlo consapevolmente.

Le posizioni ed i movimenti dello yoga, le pratiche di espansione del respiro, attivano una rinnovata consapevolezza del nostro corpo e rendono la nostra mente più chiara e sveglia, favoriscono lo stabilizzarsi dell’attenzione e risvegliano i nostri sensi.

Meno il corpo è teso, meno è rigido, più si libera energia vitale che diventa disponibile per l’attenzione la consapevolezza e la gioia spontanea.
La consapevolezza, l’ascolto interessato, la capacità di vivere pienamente il qui e ora, sono infatti strettamente legati all’energia disponibile e correttamente circolante nel sistema corpo-mente.
Le pratiche yogiche quindi vanno a liberare e far circolare l’energia vitale che normalmente viene intrappolata in tensioni corporee, disallineamenti posturali, limitazione del respiro, emozioni non consapevolizzate, rimuginazione mentale.

Nello yoga-mindfulness, tutte le pratiche corporee hanno principalmente lo scopo di risvegliare la nostra consapevolezza e di portarla nel qui e ora, la dove la nostra vita sta realmente accadendo.

L’ascolto “religioso” del corpo, la connessione con le sensazioni che accadono momento per momento sono elementi costanti ed essenziali nella nostra pratica.

E’ il corpo stesso, nei suoi movimenti, così come nelle posizioni o nel susseguirsi degli atti respiratori ad essere quel luogo “sacro” e allo stesso tempo concretamente vivo e dinamico, dove la mente può stabilizzarsi, sincronizzarsi con i ritmi biologici e trovare dimora, dove  assaporare l’unicità dell’istante.

Le pratiche di mindfulness più specificamente meditative sono molto semplici e si basano principalmente sul portare l’attenzione al respiro, mantenercela e riportarcela con un movimento intenzionale e delicato allo stesso tempo, qualcosa di simile ad una danza.

Esistono poi una serie di pratiche cosiddette “informali” che si rivelano molto utili a portare nella vita quelle attitudini che vengono esercitate nella lezione, come la meditazione camminata o la meditazione del cibo e delle azioni quotidiane. Queste pratiche sono anche un ricco terreno di esplorazione di se stessi e delle proprie dinamiche, e spesso occasione di fertile condivisione nelle lezioni.

Tutto questo viene proposto con una metodologia progressiva e gentile, rispettosa dei tempi, delle modalità e delle aspirazioni di ciascun praticante.

La pratica di yoga- mindfulness ci conduce quindi verso la dimensione dell’essere, intrisa di libertà e appagamento, in alternativa alla dimensione del fare, in cui dominano automatismi e insoddisfazione, nella quale siamo spesso intrappolati.

Il nostro fare nella pratica è funzionale all’essere e serve unicamente a nutrirlo.

ArtCounseling. L’arte al servizio della crescita personale

La centralità del fare artistico-creativo per facilitare il cambiamento personale, e’ il tratto distintivo del counseling espressivo o Artcounseling.

Per counseling espressivo si intende secondo la definizione di E.Giusti  e I. Piombo:

“quel particolare approccio che usa le immagini, l’immaginario ed il fare artistico creativo.”

L’artcounselor abbina le sue competenze relazionali con la conoscenza del processo creativo e delle sue fasi.
Possiamo considerare il fare creativo come esso stesso una risorsa relazionale, e che la competenza relazionale, cioè il saper essere in relazione con l’altro in modo autentico fruttuoso ed evolutivo, non può prescindere dalla creatività.

La relazione di aiuto è essa stessa in un certo senso arte.
 


Quando parliamo di counseling artistico, ciò riguarda non solo utilizzo dell’arte in senso tecnico, ma la centralità dell’elemento creativo, in tutte le sue molteplici sfaccettature, nella relazione di aiuto.

Ci ricorda infatti  James Hilmann che:

“la psiche emerge quando siamo immersi nell’immagine, o ci perdiamo nei suoi labirinti”.

Un elemento a cui viene data grande centralità è sicuramente l’immagine e l’immaginario.

Le immagini possono avere molteplici origini e natura: possono provenire da suggestioni esterne, prese dall’ambiente, oppure generate dal cliente sotto forma di disegni, dipinti o scarabocchi, o anche immagini formulate verbalmente sotto forma di metafore, o ancora immagini corporee come gesti, movimenti o danze, oppure immagini interne suscitate ad esempio dalla fruizione di forme di arte e manufatti artistici.

Il contatto con le nostre parti più profonde e animiche dunque è particolarmente facilitato dall immagine che essendo più antica e primordiale della parola, risuona più facilmente con il linguaggio dell’anima.
Infatti, le parole che dispongono di più potere sono proprio quelle che hanno la capacità di evocare immagini significative.

Nel counseling espressivo come nell’arteterapia, il lavoro è orientato in direzione dell’unità e dell’integrità della persona, è fondamentale perciò che il counselor sia

“in grado di mettere in comunicazione parole ed immagini, cosi che il cliente veda ciò che produce come qualcosa di profondamente suo, di interiore , che lo aiuta a entrare in relazione con l’esterno, come una finestra sul mondo” . (Giusti, Piombo)

E’ proprio su questo gioco interno-esterno che si gioca gran parte dell’importanza e dell’efficacia del mezzo espressivo; consente infatti di tirare fuori, di esprimere qualcosa che accade dentro, attraverso un processo delicato e gentile, metaforico e analogico, e allo stesso tempo potente e denso di significato.

Questo spazio che è sia interno che esterno è qualcosa di simile a quello che Winnicot  ha chiamato “spazio transizionale”, ed è sede di esplorazione, gioco creatività e scoperta di sé.

La differenza fondamentale tra il processo artistico tout-court e l’artcounseling, è l’avvenire di questo all’interno di una relazione specifica e di un setting che costituiscono il contesto dinamico, la cornice di significato che è parte integrante nella costruzione del senso del processo e del prodotto artistico.

“La parola arte va intesa come potenzialità che ognuno ha di elaborare artisticamente il proprio vissuto e di trasmetterlo creativamente ad altri per facilitare uno stato di benessere, di esistere bene.” (Giusti, Piombo)

Il processo in cui accade l’espressione artistica è dunque fondamentale, ed è fondamentale il come ci si relaziona all’opera del cliente.

Il counselor sarà totalmente rispettoso del prodotto del cliente, lo accoglierà con calore e conferma, il cliente potrà così sentirsi accettato e al sicuro e saprà di potersi fidare, e dunque esprimersi liberamente.

L’esplorazione del prodotto artistico è un momento molto importante e delicato, l’artcounselor in quel momento è un po’ come il genitore (affettivo-positivo) che osserva l’opera del bambino-cliente.

Attraverso il fare artistico è più facile bypassare difese e meccanismi di censura, giacché sembra che in fondo si tratti “soltanto” di un disegno o di un manufatto, di un immagine presa da una rivista, o della scelta un colore.

Parlare del colore, delle forme, dei materiali scelti è una modalità morbida e metaforica per parlare del mondo interno del cliente senza chiamarlo direttamente in causa, mettendo dunque il cliente in grado di abbassare le proprie difese e favorire il processo di autoconoscimento.

In questo modo, attraverso l’accoglienza empatica del lavoro del cliente, si possono costruire la sicurezza e la fiducia che sono alla base dell’alleanza operativa. L’accoglienza incondizionata del processo creativo del cliente rimanda immediatamente, per analogia, all’accettazione della sua persona in quanto tale, e va di pari passo con essa.


Il cliente inoltre può prendere una certa distanza dal suo prodotto, fintanto che riesce a sentirsi a suo agio, nella relazione con esso (osservandolo, descrivendolo) può cioè calibrare la distanza che mette tra sé e quel qualcosa che è emerso dalla sua esperienza, ed ora gli appare in una forma oggettivata.
Oggettivata, qui va inteso non tanto nel senso negativo di reificata e irrigidita, ma al contrario: l’oggettivazione la rende osservabile, conoscibile, manipolabile e soprattutto trasformabile.

Il counselor comunque incoraggerà il cliente a riconoscere come suo il prodotto creativo aiutandolo a costruire dei ponti fra mondo interno e la sua espressione esterna.
Altri ponti interessanti possono essere costruiti usando il prodotto artistico come metafora per leggere con un nuovo sguardo, eventi e situazioni nella vita reale del cliente.

L’uso dell’espressione artistica nel processo di counseling, ha inoltre la finalità di promuovere l’autoconsapevolezza del cliente e la crescita personale, sottolineando  la centralità della creatività come una risorsa e cruciale da promuovere e risvegliare nella persona.


Perché si possa parlare di una vera crescita e una vera consapevolezza, non si può prescindere da un approccio creativo e aperto alla vita.
Per vivere autenticamente ci è richiesta la capacità di poter abbandonare territori già frequentati, i percorsi noti e stabiliti, e di emanciparsi da modi di essere tendenzialmente automatici e dettati dal confort.

Le Emozioni “Parassite”: conoscerle, riconoscerle, trasformarle..

Nell’ Analisi transazionale, si parla di
“emozioni parassite”, come di quelle “emozioni familiari apprese e incoraggiate nell’infanzia, vissute in diverse situazioni di stress e inadatte quale mezzo di risoluzione dei problemi.”

Sono dunque emozioni che abbiamo imparato a mettere in atto nei nostri contesti familiari, spesso perché esplicitamente incoraggiate o perché le sole consentite a scapito di altre invece non accettate o scoraggiate. Penso ad  esempio che fino a pochi anni fa non era raro purtroppo sentire un genitore dire al proprio figlio maschio “..non piangere i maschietti non piangono, non sei mica una femminuccia!”

In alcuni ambienti familiari può essere una sorta di tabù manifestare alcune emozioni mentre altre vengono incoraggiate e promosse. Ogni famiglia ha una sua gamma di emozioni permesse e consentite, ed una gamma di emozioni che invece vengono inibite.

Un modo in cui apprendiamo le nostre competenze emotive, quindi è tendenzialmente inconscio, per imitazione dei nostri genitori e di altre figure significative, vedendo e risuonando con il loro stile emotivo, il modo in cui cioè vivono esprimono e comunicano il proprio mondo emotivo.

Io ricordo ad esempio l’imbarazzo e il timore di mio padre nelle situazioni sociali, anche quelle molto semplici come l’interazione con un barista. Quella percezione mi ha molto influenzato trasmettendomi innanzitutto confusione e una sorta di sfiducia nelle mie percezioni, nel mio sistema di valutazione, perché in qualche modo mi veniva segnalato che una situazione, che io percepivo del tutto innocua, fosse invece, in un modo che non riuscivo a comprendere, pericolosa, minacciosa, o comunque fonte di stress e tensione.
Allo stesso tempo è difficile sentirsi protetti se percepiamo paura proprio nella figura che dovrebbe proteggerci e accudirci, di conseguenza finivo per provare paura anche io e senza comprenderne il motivo.

Come facciamo a riconoscere un’emozione parassita da una funzionale?

C’è una considerazione molto semplice che possiamo fare:

 Le emozioni parassite sono inadatte a risolvere efficacemente un problema o una sfida che incontriamo.

Molto spesso sono loro stesse a creare un problema.
Se sto camminando in un bosco e improvvisamente avverto un rumore sinistro dietro un cespuglio che non so decifrare, la paura che provo fa allertare il mio sistema nervoso, muscolare posturale e respiratorio, acutizza le mie percezioni e mi dispone ad una reazione di lotta o fuga. E’ un emozione del tutto funzionale alla situazione, se devo scappare predispone efficacemente il sistema motorio alla reazione di fuga.
Provare una paura che arriva a bloccarci invece, ad esempio quando vogliamo esprimere un nostro bisogno al partner o fare una richiesta al nostro capo, non ci aiuta ad ottenere il nostro scopo che è la comunicazione e la soddisfazione dei un bisogno.

 Quando proviamo una qualsiasi emozione possiamo chiederci se sia effettivamente adeguata e funzionale al qui e ora della situazione. Se non lo è, secondo l’AT, stiamo nel copione, cioè stiamo seguendo un “piano di vita che si basa su di una decisione presa durante l’infanzia, rinforzata dai genitori, giustificata dagli avvenimenti successivi e che culmina in una scelta decisiva” (E. Berne)

La domanda che apre all’esperienza e nutre la consapevolezza è questa:

“Quest’emozione è veramente connessa con la situazione presente o proviene da qualche condizionamento del passato?”



Provate a chiedervelo quando intuite che quell’emozione che provate ha qualcosa che non vi torna, vi sembra forse un p troppo intensa o inadatta o semplicemente un po’ strana, insomma richiama la vostra attenzione in qualche modo, o verso la quale vi sentite a disagio.

Per questo, l’emozione non si rivela utile e funzionale al qui e ora, perché non nasce realmente nel qui e ora, ma proviene da una risonanza del passato risvegliata dalla situazione attuale e rimette in atto un’ antica strategia adattiva che diventa però oggi una costrizione, una sorta di obbligo a rivivere certe situazioni.

 Alcuni segnali corporei dell’emozione parassita sono  quelli di essere o iperattivanti o iperbloccanti; si ha una percezione che l’ energia che non circoli liberamente, o in eccesso o troppo in ribasso, depotenzianti o ansiogene ,  inoltre durano più a lungo, lasciano tracce per un periodo più lungo, nonché spesso, scie di pensieri ridondanti.

In un percorso di counseling espressivo e corporeo, possiamo apprendere nuove strategie per dare forma creativamente alle nostre emozioni, a riconoscerne i segnali corporei, imparare a gestirle e a trasformarle anche attraverso il movimento creativo ed il gesto espressivo.
Possiamo fare in modo che da parassite, che succhiano la nostra energia, possano diventare nostre alleate ed utili amiche.

STRANIERI A NOI STESSI. Il viaggio interiore, dall’Estraneità all’Intimità

Siamo spesso stranieri a noi stessi.
Lo siamo in vario modo, a cominciare dal corpo, vissuto molte volte come un oggetto, come qualcosa che “abbiamo” e che può funzionare bene o male, che crea fastidio oppure sta bene, che va allenato.
Un oggetto oppure un mezzo per fare o per apparire, quasi mai vissuto e pensato come “me stesso”.

Perché è vero da un lato che il corpo non ci appartiene interamente, che non lo possiamo controllare del tutto, per quanto bene viviamo e curiamo la salute, non possiamo evitare la malattia, e un giorno, la morte.

O più semplicemente spesso non controlliamo ciò che appare nel corpo sotto forma di pensieri ed emozioni, stati affettivi, che appaiono e scompaiono senza chiedere il nostro parere in proposito. 

Oppure pensiamo ai processi fisiologici naturali che accadono indipendentemente dalla volontà, come il respiro, la digestione il battito cardiaco. 


Pensiamo al battito del cuore che  non possiamo controllare volontariamente (forse solo alcuni yogi ci riescono) e che è paradossalmente proprio l’espressione centrale della vita in noi.

Dentro di noi il cuore pulsa spinge sostiene la vita e questo qualcosa di così essenziale non dipende da noi, non è sotto il nostro controllo.
Per dirlo con le parole di Massimo Recalcati, sperimentiamo che “la vita travalica la vita”. 

Così è anche il nostro nome, così intimo e familiare, eppure ci viene dato da altri, ci viene “imposto”, quindi se da un lato ci è estraneo, dall’altro in esso ci riconosciamo profondamente ed intimamente. 

Le parti di noi che non riconosciamo, ci sono estranee, le emozioni che non accettiamo, sono lo straniero in noi. Straniero che parla altre lingue, altre grammatiche, che abbiamo disimparato o mai appreso, e che è necessario tornare ad apprendere, tradurre per assimilarle e integrarle.
A volte queste parti sono state completamente ridotte al silenzio e quindi diventate ancora più pienamente estranee, forse visibili solo attraverso la “proiezione”. 

Sappiamo bene da tutte le tematiche relative all’ombra, che se queste parti restano non viste, non ascoltate, non riconosciute, diventeranno sempre più potenti  ingigantiscono involvendosi, agendo al di sotto della coscienza condizionandoci fortemente.


Dunque è a partire da questa estraneità verso noi stessi che può partire un interrogarsi sulla paura dell’altro, non necessariamente lo straniero ufficialmente riconosciuto come tale, ma anche semplicemente l’altro, il prossimo.
Su questo prossimo, (l’impiegato delle poste, la persona accanto a noi sulla metro, il partner) probabilmente proiettiamo molte delle paure che nutriamo nei confronti del nostro straniero interiore, di tutte quelle parti estranee a noi stessi che stentiamo a riconoscere. 

Mi sembra quindi di poter dire che più siamo estranei a noi stessi più siamo chiusi e impauriti di fronte all’altro. 

Un processo di integrazione, di chiarificazione e autoconoscenza ci porta invece nella direzione opposta, dell’apertura, della disponibilità, dell’ascolto.
Prima di tutto dunque occorre familiarizzare e incontrare ciò che ci appare come potenzialmente estraneo in noi stessi. 

Potremmo riflettere anche sul cos’è che consideriamo noi, ciòè su ciò che abbiamo potere e controllo. Se c’è qualcosa che sfugge al mio controllo non sono io. 

Ma è davvero così? Posso dire di non essere anche il mio cuore, il mio intestino il mio respiro, o l’agitazione che talvolta provo nello stomaco, i processi metabolici non siano davvero miei? 

Non posso identificarmi con una volontà più ampia che opera a prescindere da una più ristretta che identifico come io?
Non posso rispecchiarmi nella vita intera che sfugge ai tentativi di controllo e manipolazione?

Il fiore nel campo mi è davvero più estraneo di un pensiero che attraversa la mente?
Non è che allora forse divento estraneo a me stesso quando mi identifico solo con una parte?

Per familiarizzare con lo straniero o con l’ estraneo occorre imparare a comunicare con la sua lingua, imparare il linguaggio dell’”altro” come estensione e arricchimento del mio.
Il linguaggio del corpo ad esempio, spesso lo abbiamo dimenticato, frainteso, spesso ci risulta incomprensibile, e anziché apprenderlo  reimpararlo umilmente lo mettiamo volentieri a tacere.

La diversità dei linguaggi, l’impossibilità di parlare una sola lingua costringe ad “imparare la lingua dell’altro” a tradurre continuamente, a cambiare punto di vista e prospettiva a rendere permeabili i confini senza cancellarli. 

Penso alla membrana cellulare come a metafora vivente di questo processo. La sua membrana è porosa e lascia passare il nutrimento necessario traducendolo in “se stessa”.

Così è ogni forma di nutrimento, così è il respiro.

La necessità di tradurre conduce all’apertura all’ altro alla necessità di esplorare più linguaggi in cui il reale si può esprimere e descrivere, abbandonando il mito di unica forma che racchiuda tutto. 

Non a caso i miti razzisti prevedono l’omogeneità, la riduzione ad uno della molteplicità. Questa riduzione avviene attraverso l’esclusione, la cancellazione, l’appiattimento.

Credo però che abbia comunque valore una prospettiva di unificazione su un livello chiaramente superiore, non di riduzione delle differenze, ma di integrazione su un livello superiore, e credo anche che in realtà quella lingua che integra tutto, senza cancellare nulla, esista e che sia il silenzio. 

Il silenzio come ascolto meditativo infatti lascia cantare ogni singola voce dell’esistenza in uno spazio illimitato che è in grado di accogliere ogni singola voce, includendola senza cancellarla.

Penetrando silenziosamente nel particolare, nel suono, nella vibrazione specifica di ogni angolo di vita, ci apriamo così umilmente all’universale al senza limiti, all’infinito.

Abbracciando nel silenzio quella che ci appare ad uno sguardo distratto e superficiale come estraneità e che eppure sentiamo profondamente nostra, aprendoci al mistero, apprendendo il linguaggio del silenzio, dell’ascolto e della ricettività,  creiamo uno spazio di avvicinamento e di intimità.

In quello spazio possiamo davvero essere intimi con la nostra presunta estraneità, incontrarla e riconoscerla, intimi con il processo stesso della vita che travalica il piccolo io, le nostre limitate identificazioni.
Iniziamo così  ad intravedere ed intuire l’unità che comprende e connette tutto.

Essere soli. Esplorare il vuoto interiore

Sentirsi interiormente soli, anche se si hanno molte relazioni sociali, sembra essere una condizione sempre più diffusa.

Vorrei portare l’attenzione su un tipo speciale di solitudine: il sentirsi soli rispetto a se stessi.

Questa nasce a mio avviso quando si è rinunciato a parti importanti del proprio sé, si è mutilata la propria personalità in funzione di un io che ha privilegiato l’adattamento alle richieste dell’ambiente.

In questo caso è la relazione con se stessi a presentare delle importanti carenze

Si sperimenta un senso di impoverimento del proprio sé, con il quale non si riesce a stare in contatto in modo soddisfacente, né a comunicare autenticamente.

Avendo abbandonato alcune parti di sé, (il bambino libero, la parte creativa, il poter sentire alcune emozioni, le aspirazioni profonde) ci rende più soli internamente, più poveri.

Questo processo mina alle fondamenta anche la fiducia in noi stessi, perché in un certo senso ci siamo abbandonati, o ci sentiamo come se in qualche modo ci fossimo traditi da soli.

Il nostro Sé profondo o anima se vogliamo, vive come tradimento la sua nemesi, il fatto che la personalità lo dimentichi o faccia finta che non esista, vivendo scollegata da lui.

E la personalità così costruita in modo carente sente la mancanza del legame coni qualcosa di essenziale con una fonte di nutrimento originaria da cui attingere e da cui prendere forma.

E’ come sentire che in qualche modo non si può fare completo affidamento su di sé perché si sono costruiti dei vuoti, delle carenze.
Comunicare con sé stessi diventa un’esperienza dolorosa, come cercare di entrare in contatto con un assenza con un vuoto interiore, con la traccia di qualcosa che è stato.

Questo tipo di solitudine è molto difficile da tollerare perché la persona non riesce a stare con se stessa ad incontrarsi senza sentire disagio vuoto, ostilità incompletezza. Difficilmente chi la sperimenta diventerà un meditante.

Un meccanismo di fuga infatti consiste proprio nel ricercare ossessivamente la compagnia dell’esterno, l’appoggiarsi agli altri che sfocia spesso nella dipendenza emotiva.

Queste relazioni però difficilmente si rivelano appaganti in quanto fondamentalmente inautentiche, in quanto ciò che manca nel sé mancherà anche nella relazione o verrà ricercato compulsivamente nell’altro.

L’uscita da questo stato implica un lavoro su se stessi teso a recuperare e a rivitalizzare gli aspetti che al proprio interno si sono atrofizzati, attraverso la riscoperta della creatività, il gioco, la meditazione, la comunicazione autentica, la relazione, la bellezza.

Allo stesso tempo è necessario entrare in contatto con questo senso di vuoto interno, anche se doloroso, smettere di evitarlo, e disporsi ad attraversarlo.

Le pratiche intuitive e simboliche del counseling espressivo, il risveglio del corpo attraverso le diverse pratiche di movimento corporeo possono costituire dei validi percorsi per ritrovare parti di noi perdute sopite o dimenticate.

Si può riscoprire una ricchezza interiore di cui non si era consapevoli, e iniziare anche a percepire e ricercare la solitudine come un’opportunità di ascolto, autoconoscenza e crescita.

Da questo processo, da questa maggiore pienezza interiore, anche le relazioni non possono che risultare arricchite e rivitalizzate.

Oltre il recinto c’è la vita. Cambiare si può

Cambiare è rischioso e comporta impegno e fatica.

Richiede di aprirsi al nuovo, di avventurarsi nello sconosciuto.

Non tutti sono disposti ad uscire da ciò che è familiare e rassicurante, dalla sfera delle abitudini acquisite.

Ci si avvicina alla possibilità del cambiamento spesso attraverso il dubbio, l’incertezza o la paura, o attraverso un “economia energetica” che lo valuta troppo dispendioso o faticoso, la nostra terribile finanziaria personale; la BCE che è dentro di noi.

Così molti permangono nella stagnazione del già noto.

E’ curioso notare invece come l’energia spesa in un cammino di crescita sia simile ad investimento molto produttivo: si ha un enorme ritorno in termini di vitalità, autostima, entusiasmo, potere personale, fiducia.

La fatica del cammino interiore è una fatica che nutre, e non svuota.
Mentre la “non-fatica” del non-cambiamento svuota e non nutre.

Così alcuni, la maggior parte a dire il vero, sono spinti ad intraprendere un percorso di cambiamento quando la fatica del rimanere nella condizione attuale diventa troppo alta e inizia a superare quella che si immagina debba venir spesa per avviare un processo di trasformazione.

Questo tipo di motivazione ad iniziare un cammino (che sia un percorso di counseling, arteterapia, una psicoterapia, oppure un cammino spirituale -meditativo, o altro) è a mio avviso di tipo “autoprotettivo”, è volto a tutelare se stessi dal peggio.
Si sceglie di cambiare perché si è quasi costretti, per non peggiorare, perché così non si può continuare.

Questa motivazione autoprotettiva, sebbene abbia il pregio della urgenza e della spinta della necessità, spesso tende ad indebolirsi lungo il percorso e tende ad esaurirsi facilmente non appena un adattamento accettabile viene raggiunto.
L’inerzia iniziale spesso si ripresenta giusto qualche passo più in là.

Oppure si può intraprendere un cammino perché si intuisce o si è sperimentata in qualche modo l’energia del cambiamento volontario, la fatica nutriente dell’impegno e della responsabilità, la freschezza rinnovante della disciplina interiore, il gusto dell’avventura dell’ignoto che ci riavvicina a noi stessi.

Questo cambiamento è volontario, proattivo e in un certo senso gratuito.

Nasce quando si riattiva in noi la “pulsione autorealizzativa”, la tendenza all’autocompimento, la spinta verso il pieno sviluppo della personalità umana, di cui parlano le tradizioni spirituali, la filosofia e la psicologia umanistica.

Anche questo cammino nasce da una sorta di disagio, di un sentore dell’indisponibilità interiore a lasciare tutto com’è, ma non tanto per una costrizione della sofferenza quanto più per una intuizione, una visione di una vita piena, di ricchezza esistenziale, di una felicità possibile.

Il cammino richiede impegno, ma come dicevamo, ci ripaga con una moneta di più alto valore, ci restituisce la verità di noi stessi, la nostra umanità e autenticità.
E non c’è sicurezza, agio o zona di confort che possa valere altrettanto.


Si comprende che si può essere di più e altro, che la crescita e lo sviluppo attraversano tutte le età, che si può amare, gioire e anche soffrire, di più e meglio, pienamente e in modi sempre nuovi, insomma che “oltre il recinto c’è la vita”, e quella vita è una sorgente ricca che si vuole assaporare, gustare onorare e celebrare.

Il vero cambiamento comunque non è diventare qualcos’altro, ma è tornare a se stessi, alla nostra essenza sacra e originaria, piuttosto che continuare a sfuggirvi.

Il potere rende deboli

 

“E’ proprio nella lotta dell’io per la conquista del potere che l’individuo è più aperto all’influenzamento” (Rollo May, “L’arte del Counseling”)

Quanto più perseguiamo il potere sugli altri, tanto più perdiamo il nostro potere personale.

Quando perseguiamo una posizione di dominanza rispetto all’altro, inevitabilmente mettiamo in atto strategie di manipolazione ad esempio nella comunicazione, oppure aderiamo ad un immagine artefatta di noi stessi (un falso sè) necessariamente parziale o inautentica dalla quale la vulnerabilità deve rimanere esclusa e celata.

In questo processo è facile che aderiamo acriticamente a modelli di comportamento mutuati dall’esterno, quelli che ci appaiono come vincenti e che sembrerebbero assicurarci una posizione di privilegio o di vantaggio sull’altro.

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Ganesha e la rimozione degli ostacoli

Si dice che Ganesha  è colui che rimuove gli ostacoli.

Quindi c’è un ostacolo, qualcosa che separa noi da un uno stato desiderato, un obiettivo.

 Se questo viene rimosso, ecco che viene annullata la separazione, siamo in contatto con ciò a cui aspiriamo.

Ganesha sembra quasi dirci “non preoccuparti troppo dell’ostacolo, ci penserò io…”, in termini moderni, potremmo vederlo come un elegante escamotage per dirci “non concentrarti sul problema, ma sulla soluzione”!

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Tre “doni” della mindfulness. Come la meditazione puo’ arricchire la tua vita

Attraverso la pratica della meditazione di consapevolezza o mindfulness, potrai sviluppare almeno , tre nuove potenzialità, tre veri e propri “doni” che possono arricchire decisamente la tua vita.

Queste potenzialità sono delle vere e proprie nuove prospettive,  tre punti di vista che, pienamente sviluppati, possono davvero cambiare il tuo modo di vedere e di fare esperienza della realtà.

Il titolo di questi tre doni è chiaramente metaforico, prendilo quindi “tra virgolette”, come evocazione di un esperienza interiore.

Il primo è

       “Vedere le cose dall’alto”

La tua prospettiva sulle cose sarà via via più ampia e più completa, come se salissi su una montagna e vedessi le cose dall’alto, vedi di più c’è più spazio e hai accesso ad una visione d’insieme

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Mindfulness in azione : Tre pratiche di consapevolezza con il respiro da applicare nella vita quotidiana

Oggi vorrei proporti tre pratiche da mettere in atto attraverso il respiro, per trovare la centratura e praticare la consapevolezza nel bel mezzo delle attività quotidiane.

Sono pratiche semplici ma allo stesso tempo molto potenti, se applicate ripetutamente e con passione, calore, “tapas”.

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