Siamo spesso stranieri a noi stessi.
Lo siamo in vario modo, a cominciare dal corpo, vissuto molte volte come un oggetto, come qualcosa che “abbiamo” e che può funzionare bene o male, che crea fastidio oppure sta bene, che va allenato.
Un oggetto oppure un mezzo per fare o per apparire, quasi mai vissuto e pensato come “me stesso”.
Perché è vero da un lato che il corpo non ci appartiene interamente, che non lo possiamo controllare del tutto, per quanto bene viviamo e curiamo la salute, non possiamo evitare la malattia, e un giorno, la morte.
O più semplicemente spesso non controlliamo ciò che appare nel corpo sotto forma di pensieri ed emozioni, stati affettivi, che appaiono e scompaiono senza chiedere il nostro parere in proposito.
Oppure pensiamo ai processi fisiologici naturali che accadono indipendentemente dalla volontà, come il respiro, la digestione il battito cardiaco.
Pensiamo al battito del cuore che non possiamo controllare volontariamente
(forse solo alcuni yogi ci riescono) e che è paradossalmente proprio
l’espressione centrale della vita in noi.
Dentro di noi il cuore
pulsa spinge sostiene la vita e questo qualcosa di così essenziale non dipende
da noi, non è sotto il nostro controllo.
Per dirlo con le parole di Massimo Recalcati, sperimentiamo che “la vita
travalica la vita”.
Così è anche il nostro
nome, così intimo e familiare, eppure ci viene dato da altri, ci viene
“imposto”, quindi se da un lato ci è estraneo, dall’altro in esso ci
riconosciamo profondamente ed intimamente.
Le parti di noi che non riconosciamo, ci sono estranee, le emozioni che non accettiamo, sono lo straniero in noi. Straniero che parla altre lingue, altre grammatiche, che abbiamo disimparato o mai appreso, e che è necessario tornare ad apprendere, tradurre per assimilarle e integrarle.
A volte queste parti sono state completamente ridotte al silenzio e quindi diventate ancora più pienamente estranee, forse visibili solo attraverso la “proiezione”.
Sappiamo bene da tutte le tematiche relative all’ombra, che se queste parti restano non viste, non ascoltate, non riconosciute, diventeranno sempre più potenti ingigantiscono involvendosi, agendo al di sotto della coscienza condizionandoci fortemente.
Dunque è a partire da questa estraneità verso noi stessi che può partire un interrogarsi sulla paura dell’altro, non necessariamente lo straniero ufficialmente riconosciuto come tale, ma anche semplicemente l’altro, il prossimo.
Su questo prossimo, (l’impiegato delle poste, la persona accanto a noi sulla metro, il partner) probabilmente proiettiamo molte delle paure che nutriamo nei confronti del nostro straniero interiore, di tutte quelle parti estranee a noi stessi che stentiamo a riconoscere.
Mi sembra quindi di poter
dire che più siamo estranei a noi stessi più siamo chiusi e impauriti di fronte
all’altro.
Un processo di
integrazione, di chiarificazione e autoconoscenza ci porta invece nella
direzione opposta, dell’apertura, della disponibilità, dell’ascolto.
Prima di tutto dunque occorre familiarizzare e incontrare ciò che ci appare
come potenzialmente estraneo in noi stessi.
Potremmo riflettere anche sul cos’è che consideriamo noi, ciòè su ciò che abbiamo potere e controllo. Se c’è qualcosa che sfugge al mio controllo non sono io.
Ma è davvero così? Posso
dire di non essere anche il mio cuore, il mio intestino il mio respiro, o
l’agitazione che talvolta provo nello stomaco, i processi metabolici non
siano davvero miei?
Non posso identificarmi con una volontà più ampia che opera a prescindere da una più ristretta che identifico come io?
Non posso rispecchiarmi nella vita intera che sfugge ai tentativi di controllo e manipolazione?
Il fiore nel campo mi è
davvero più estraneo di un pensiero che attraversa la mente?
Non è che allora forse divento estraneo a me stesso quando mi identifico solo
con una parte?

Per familiarizzare con lo
straniero o con l’ estraneo occorre imparare a comunicare con la sua lingua, imparare
il linguaggio dell’”altro” come estensione e arricchimento del mio.
Il linguaggio del corpo ad esempio, spesso lo abbiamo dimenticato, frainteso, spesso
ci risulta incomprensibile, e anziché apprenderlo reimpararlo umilmente lo mettiamo volentieri a
tacere.
La diversità dei linguaggi,
l’impossibilità di parlare una sola lingua costringe ad “imparare la lingua
dell’altro” a tradurre continuamente, a cambiare punto di vista e prospettiva a
rendere permeabili i confini senza cancellarli.
Penso alla membrana cellulare come a metafora vivente di questo processo. La sua membrana è porosa e lascia passare il nutrimento necessario traducendolo in “se stessa”.
